L’istruzione, in Italia, difetta gravemente in quanto a numeri. Non solo perché scarseggia in matematica, materia che conferma i nostri ragazzi in fondo alle graduatorie internazionali, ma proprio perché mancano numeri che rendano possibili valutazioni oggettive, misurazioni reali e scelte informate. Usiamo i numeri per esprimere concetti semplici, che non richiedono una cultura superiore. Non diciamo che farà caldo, o tanto tanto freddo, diciamo: sono previsti 40 o 2 gradi. E capiscono tutti. Per scuola ed università, invece, non si capisce niente.
Al tempo stesso, però, c’è una passione che travolge, anno dopo anno, il Ministero dell’Istruzione: gli esami di maturità. Non c’è ministro, quale che sia la sua formazione culturale o convinzione politica, che si sottragga al fascino di cambiarne la struttura e le modalità. Salvo il fatto che sono un rito inutile, un sacrifico sull’altare vuoto di un falso mito: il valore legale del titolo di studio. Inoltre, nel riformarli con ossessiva ripetitività, il dato che si tiene sempre in prima evidenza è quello dei costi, perché la politica scolastica è, purtroppo, quasi esclusivamente il governo del personale che nella scuola e nell’università lavora. Gli studenti sono un di più, un’appendice del ragionare su come far funzionare una grande macchina che spende in stipendi il 97% delle proprie risorse.
In questo modo ha preso corpo un enorme moltiplicatore d’ingiustizia, che getta sabbia negli ingranaggi degli ascensori sociali, che danneggia l’interesse di chi vale e si trova in basso, protegge chi è nato da professionisti che si trovano in alto ed impoverisce tutti. Nella competizione globale c’impegniamo a confrontare il costo del lavoro e degli altri fattori produttivi, ma abbiamo da tempo alzato le braccia sul fronte che dovrebbe vederci vincitori, quello dell’economia del sapere.
La valutazione, naturalmente, è solo un momento della formazione culturale e professionale, ma anche da questo limitato angolo visuale si possono avviare pratiche virtuose capaci di sollecitare ed innescare una rivoluzione complessiva. Di quella abbiamo bisogno, e non certo per fregola movimentista, bensì perché non possiamo più permetterci di arrancare in coda.
I test Pisa (Programme for international student assessment), condotti in ambito Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), sono già una valutazione indipendente, ma non servono a valutare ciascun studente o ciascun istituto, piuttosto ad avere un’idea di come funziona, nei diversi Paesi, il sistema dell’istruzione. Quel che dicono sul nostro è assai triste. Quei test indicano una feroce stagnazione culturale, con i ragazzi metropolitani, frequentati i licei, che si collocano nella media dei loro coetanei all’estero, e quelli della provincia o del meridione, frequentati gli istituti pofessionali o le altre scuole superiori che appartengono ad un altro mondo, che neanche è terzo. Una tale condizione non ritrae certo la tradizione culturale italiana, ma fotografa la regressione del sapere nelle aree di minore sviluppo economico. Immagine più nitida non si potrebbe avere del fallimento del sistema pubblico dell’istruzione e delle garanzie che si trovano negli articoli 3 e 33 della Costituzione.
La sconfitta formativa non ha affatto diminuito la percezione che il sapere sia strumento di benessere economico e promozione sociale. Non è vero, in altre parole, che le famiglie italiane non credano nel valore del sapere, è, invece, vero che subiscono l’implosione del sistema, senza avere apparenti vie di fuga. Tant’è che chi può manda i figli all’estero, anche giovanissimi, per imparare le lingue, ed in particolar modo l’inglese, così come si mandano quelli laureati a frequentare master poi preziosi per propiziarne la carriera. Solo che questo avviene su base volontaristica, senza alcun supporto pubblico, senza interazione con il mondo produttivo, quindi senza borse di studio e senza (nostra) selezione all’ingresso. Detto diversamente: conta il censo e contano i quattrini della famiglia, conta poco la qualità del ragazzo. Difficile immaginare sistema più ingiusto (e, un tempo, si sarebbe detto “classista”).
Per cambiare registro occorre dotarsi di sistemi di valutazione che non siano autoreferenziali, utili solo a promuovere o, più precisamente, ad assolvere se stessi. Devono muoversi in due direzioni, valutando gli studenti, certo, ma anche gli insegnanti, le scuole, le facoltà, la macchina scolastica.
Noi valutiamo gli studenti solo alla fine dei percorsi scolastici ed universitari, più per onorare l’esame di Stato, funzionale alla certificazione legale, che per selezionare il sapere. Sono sicuro che tutti hanno sentito ripetere il contenuto dell’articolo 33, terzo comma, della Costituzione, ovvero che le scuole private devono sorgere “senza oneri per lo Stato”, ma sospetto che pochi abbiano cognizione del successivo quinto comma: “E’ previsto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale”. Come capita anche in altre parti, il Costituente fu più moderno dei suoi successori. Considerò l’ipotesi che gli esami si dovessero fare all’inizio e non necessariamente alla fine. Riprendiamo da lì, perché questo è il corretto approccio dei sistemi che funzionano.
Le valutazioni all’ingresso sono fondamentali, perché solo su quelle si può poi misurare il progresso. E’ chiaro che le differenze socio culturali esistono (ed è altrettanto evidente che un sistema dell’istruzione funziona tanto meglio quanto più le supera), e non posso pretendere che si considerino allo stesso modo risultati che non tengano conto del punto di partenza. Ma posso comparare gli incrementi, e devo misurarli anche nel corso di ogni singolo anno.
Misurare e comparare comporta l’uso dello stesso metro. Gli studenti che intendono accedere alle università statunitensi svolgono contemporaneamente, in ogni parte del mondo, dei test identici. Questo consente un criterio oggettivo e la preparazione di una graduatoria non manipolabile. Conosco già l’obiezione: quei test non possono esaurire la valutazione. Difatti non la esauriscono, ed anche per l’accesso a quei corsi concorrono altri fattori, compreso il rendimento scolastico degli ultimi tre anni. Non si potrà mai affidare a questionari con caselle da barrare la valutazione complessiva di una persona, certo, ma diffidando di quel sistema e cancellandolo del tutto si rinuncia ad avere risultati comparabili. Non lo sono, ad esempio, i nostri voti presi alla maturità, perché influenzati da una miriade di dati soggettivi ed ambientali, del tutto privi di oggettività.
Voglio ricordare che il modello di quei test di ammissione, negli Stati Uniti, prese piede proprio per evitare che la selezione universitaria fosse per censo, aprendo a tutti l’accesso all’istruzione superiore. A tutti i meritevoli, naturalmente, perché non era giusto che si laureassero solo i figli di chi poteva pagare la retta, ma neanche è giusto che si paghino gli studi a chi non ha nessuna voglia e vocazione per gli stessi.
La meritocrazia è socialmente giusta, perché premia i bravi e non i potenti. L’accesso indiscriminato è socialmente ingiusto, perché frega i capaci a favore di quanti non dovranno all’istruzione il proprio reddito.
Misurare le attitudini di ciascuno, fin dall’inizio, serve a potere valutare la convenienza di quel corso di studi. Misurarle in corso d’opera serve a verificare che non ci sia stato un errore all’inizio. Il risultato sarà anche quello di evitare che i ragazzi perdano tempo ed accumulino uno svantaggio poi difficilmente recuperabile. Misurare tutto con lo stesso metro serve a stabilire se ci sono degli errori nell’impostazione culturale dei corsi. Se, ad esempio, gli studenti italiani andassero mediamente bene in matematica (non è così, ahinoi), ma i test Pisa li classificassero come sostanziali analfabeti, sarebbe la dimostrazione che è sbagliato il corso cui sono sottoposti e che l’asticella deve essere considerevolmente alzata.
Tutte le scienze sociali progrediscono grazie alle misurazioni omogenee e comparabili, sull’esempio di quel che avvenne per le scienze naturali. Non si vede perché proprio la scuola e le università debbano sfuggire a questa regola. Poi, per carità, ci saranno eccellenze non piegabili ai moduli, genialità che si mostrano incommensurabili. Evviva, ma i sistemi collettivi non sono fatti per irreggimentare e ridurre i geni, i quali, del resto, si segnaleranno da sé.
L’esame finale è un di più, un cerimoniale d’addio, mentre oggi pretende d’essere l’unico giudizio. A chi non gradisca questo ragionamento, suggerisco di leggere con attenzione i dati conclusivi dell’ultimo anno scolastico, quello 2007-2008: sono aumentati i bocciati, nelle scuole superiori, ma sono aumentati ancor di più i promossi, ed il paradosso è possibile solo perché sono diminuiti i debiti (i rimandati di un tempo). E questo avviene proprio nel mentre sarebbe toccato ai singoli istituti organizzare i corsi di recupero, costringendo i docenti ad avere meno ferie effettive. Si è considerato prevalente, anche dal punto di vista economico, l’interesse della scuola su quello degli studenti. Questa è proprio la strada sbagliata.
Oltre agli studenti si deve valutare la macchina dell’istruzione, in ogni suo singolo segmento produttivo ed in ogni suo addetto. Le famiglie hanno diritto di sapere in quali scuole si ottengono i risultati migliori, quali cattedre funzionano, con quali percorsi si matura una più alta speranza di reddito. Senza questi dati si va tutti a volo cieco verso il “pezzo di carta”, che è effettivamente solo tale.
Nella scuola e nelle università italiane ci sono molti docenti di grande valore, che fanno seriamente il loro mestiere e restano punti di riferimento per gli studenti. Solo che nessuno sa distinguerli dagli ignoranti, dagli incapaci o da quelli che d’insegnare non hanno proprio alcuna voglia. Ci sono presidi e rettori che s’industriano a far funzionare le cose ed altri che proprio non se ne curano, lasciando che l’attività istruttiva proceda nella discontinuità e sia affidata solo alla buona volontà ed al senso di responsabilità dei singoli. Così procedendo la spesa statale per l’istruzione è alta, ma i risultati scarsi, ed il costo degli insegnanti è parimenti esagerato, salvo il fatto che tutti guadagnano poco. Uno spreco, di sapere e quattrini.
Occorre, invece, accumulare dati comparabili sulle carriere scolastiche degli studenti, sapere come si sono evolute dopo avere frequentato questa o quella scuola elementare o media. Occorre seguirne la sorte lavorativa dopo che sono usciti dal sistema scolastico, per sapere chi ha avuto maggiori soddisfazioni. E l’insieme di questi dati, di questa continua conoscenza della realtà, sarà materia preziosa per le famiglie e per i ragazzi. Inoltre sarà la base su cui far crescere un sistema premiante, anche dal punto di vista economico, per gli insegnanti. Noi paghiamo tutti (male) allo stesso modo perché non misuriamo e valutiamo il lavoro di nessuno, ed in queste condizioni non c’è sistema che possa decentemente funzionare.
E’ questa la ragione per cui molti nostri giovani vanno a studiare all’estero, ma solo pochi giovani di Paesi sviluppati vengono a studiare da noi. Il che comporta, per il nostro sistema, la perdita di valore culturale ed economico. I Paesi con sistemi selettivi importano sapere e ricchezza, noi ce li lasciamo sfuggire senza alcuna contropartita.
Purtroppo, ogni anno, riavviamo un ozioso dibattito pubblico sulla severità o lassismo degli studi, affidandoci a sensazioni o considerazioni non basati su misurazioni che, appunto, non esistono. Al termine del dibattito, sempre uguale, non siamo capaci di modificare né la struttura della spesa pubblica né l’ordinamento degli studi, proprio perché ci accapigliamo su concetti vaghi, come il sentire caldo o freddo, senza essere disposti ad usare il termometro o misurare l’umidità. Ci rassegniamo ad amministrare la scuola come servizio a docenti e bidelli, non agli studenti, così come amministriamo la giustizia come servizio a magistrati e cancellieri, non ai cittadini ed al sistema produttivo, o gli ospedali come luogo di lavoro di medici ed infermieri, e non come speranza per i malati.
Abbiamo capovolto il senso delle parole, scambiando l’egualitarismo per giustizia sociale, in questo modo mettendo in atto una terribile ingiustizia ai danni dei meno favoriti e degli esclusi. Una società che premia il merito è più dinamica e più giusta, proprio perché diminuisce il valore (non azzerabile) dei punti di partenza ed accresce quello delle capacità individuali.
Il valore legale del titolo di studio era il presidio dell’uguaglianza fra meritevoli, garantendo l’uniformità del sapere, mediante gli esami di Stato, e le pari possibilità d’accesso alle carriere statali o professionali. Ci vuol poco a vedere che oggi presidia l’opposto, appiattendo la qualità degli studi, disinnescando la validità delle valutazioni e, quindi, trasformandosi od in un titolo meramente burocratico o nella chiave d’accesso allo studio paterno. Notai figli di notai, dentisti figli di dentisti, riciclando nel nuovo millennio il corporativismo medioevale.
La cancellazione di quel valore legale non arrecherebbe danno altro che alle rendite di posizioni, socialmente inutili quando non dannose, mentre renderebbe indispensabile un sistema complessivo di valutazione, proprio perché non sta scritto da nessuna parte che corsi diversi, frequentati da persone diverse, portino tutti alla stessa condizione finale. Anche in questo caso, dunque, la difesa del vecchio orpello è funzionale alla protezione d’interessi che non sono né quelli degli studenti né quelli della società tutta. Stenta a cadere, e molte resistenze si manifestano, proprio perché si uniscono alle arretratezze culturali, alla convinzione che sia garanzia di giustizia ed equità, le più misere pressioni corporative, condite dal desiderio che nessuno si metta veramente a valutare come si spende tanta ricchezza e come si lavora in tante classi ed aule.
Le piccole cose sono talora rivelatrici. In sede parlamentare è stato proposto il ritorno al grembiule scolastico. Può essere una buona idea. Noi lo mettevamo per salvaguardare i vestiti (si portavano i calzoni corti per non bucarli al ginocchio, e con le scarpe nuove non si davano calci ad un pallone), oggi potrebbe essere utile per recuperare un po’ di decoro. Senza moralismi, naturalmente, ma così per dire che in classe non è indispensabile far vedere la mutanda. Ho letto, però, che qualcuno ha gradito la proposta giacché favorirebbe l’eguaglianza fra gli studenti. Ma perché mai dovrebbero essere uguali?
L’uguaglianza è intoccabile e civilmente sacra, se riferita ai doveri ed ai diritti del cittadino. Per il resto, nasciamo diversi e diversamente cresciamo. Questa diversità è preziosa ed un buon sistema dell’istruzione la esalta, selezionando le qualità che, poi, saranno funzionali agli interessi di tutti. Se non si procede in questo modo si otterrà il solo risultato di vedersi sopravanzare da eccellenze selezionate altrove, come già capita in interi comparti produttivi e culturali.
Se i più giovani ne avessero piena consapevolezza, se non si adagiassero nel credere di poter rifare la vita dei nonni, sarebbe questo il terreno su cui veder marciare una nuova stagione di serie proteste.
Davide Giacalone
www.davidegiacalone.it
Pubblicato da Italianieuropei