Alla festa del nulla va di moda presentarsi indossando il “salario minimo”. S’ammicca lasciando credere che saranno più soldi per tutti, mentre basterebbe seguire il dibattito europeo per sapere che si tratterà, e sarà un bene, di regole da rispettare.
Le nostre retribuzioni sono rimaste basse perché bassa è stata la crescita e nanerottola la produttività. Che dipende da quanto s’investe in ricerca e innovazione, dalla dimensione delle aziende, dal funzionamento del mondo che le circonda, scuola e pubblica amministrazione comprese, mentre il risultato complessivo dipende anche da quanti e quanto si lavora. Recuperare produttività è il solo modo serio di far crescere le retribuzioni, ma per farlo occorrono riforme a fronte delle quali le quattro cosucce che tanto hanno agitato le politiche degli opposti e convergenti demagoghi conservatori sono meno d’un’oliva d’antipasto.
Dopo le “politiche attive del lavoro”, nel Paese in cui i navigator hanno salpato per le vacanze retribuite senza mai avere svolto alcuna funzione e i centri per il lavoro si chiamano così perché pagano lo stipendio a chi vi ha trovato lavoro, è la volta del “salario minimo”. Si tratta della paga minima consentita per un’ora di lavoro (era previsto anche dal Codice di Hammurabi, Babilonia, 1750 a.C.). Quindi riguarda quanti lavorano e lo fanno con un regolare contratto. Ma quanti già ne dispongono, se rientranti nelle categorie con contratti nazionali, già sono regolati sia nel minimo che negli incrementi. Per tutti loro fissare il salario minimo alla pari di quanto già previsto sarebbe una collettiva presa in giro, fissarlo al di sopra un non senso che indurrebbe al suicidio i sindacati, sicché resta solo il fissarlo al di sotto. Basta capirsi. Quanti, invece, non sono coperti da contratto nazionale (e non sono lavoratori autonomi) potrebbero trarre vantaggio dalla fissazione di un minimo consentito, ma potrebbe funzionare solo se: a. non sia al di sopra della loro produttività, altrimenti sparirebbe quel posto di lavoro; b. si sia in grado di interdire il lavoro nero, come sappiamo praticato sia da imprese con contabilità in evasione fiscale che da lavoratori che così cumulano sussidi e paghe irregolari.
I paladini del salario minimo si mostrano difensori degli interessi dei lavoratori. In realtà quella difesa dovrebbe consistere nel controllo di legalità, sia per il nero offerto che per i contratti violati, chiedendo più ore di lavoro di quanto contrattualizzato. Ma mettiamola sul piano del soldo: in Unione europea si oscilla fra i 12.38 euro previsti in Lussemburgo all’euro e 87 centesimi fissato in Bulgaria. In Germania è a 9.35 euro. Considerato che, dal 1995 a oggi, la produttività tedesca è cresciuta il quadruplo dell’italiana, possiamo pure inchiodarlo allo stesso livello, ma varrebbe la pena di chiedersi se si prende in giro o ci si prende in giro da sé soli.
Anche il criceto degli esperimenti su memoria e intelligenza ha capito di dovere scegliere se andare a destra o sinistra, per raggiungere il boccone da sgranocchiare, ma il demagogo multicolore sa che scegliere è la più pericolosa delle attività, sì che taluno ha sfiorato la meraviglia: fissiamo il salario minimo, ma senza fissarlo. Anziché una cifra, come ovunque, mettiamoci un parametro. Se il suo emolumento lo si commisurasse alla competenza ed efficacia, alla sera toccherebbe sfamarlo. Ma è ancora un artigiano senza manualità, rispetto alla pirotecnica genialità del collega che lascia intendere il salario minimo sia il quantum che spetta comunque a tutti, in un impeto di egualitarismo assistenzialista.
Morale della favola: stabilire il minimo regolare per la retribuzione di un lavoro regolarizzato può essere utile, ma la chiave sta nel doppio richiamo alla regolarità. In quanto ai cultori della generosità con soldi altrui, si chieda loro quanto son disposti a pagare, possibilmente di tasca propria, la pizza che intendono manducare senza doversi scomodare.
Davide Giacalone, La Ragione 7 giugno 2022