Il commento di oggi

Capor(e)ali

editoriale giacalone 25 giugno ragione

I proclami contro caporali e caporalato lasciano il tempo che trovano, perché contano i fatti reali: intermediazione illecita e lavoro in nero sono realtà evidenti e diffuse, conosciute anche dai passanti; la repressione è mera declamazione, perché la giustizia non funziona; intanto si rende la vita impossibile a chi s’incaponisce a volere vivere e lavorare nella regolarità. Lo confermano i seguenti fatti.

1. Il datore di lavoro che non ha soccorso e anzi scaricato un lavorante con il braccio amputato era indagato da 5 anni, per caporalato e sfruttamento. Per chiudere le indagini sono serviti 4 anni, che è una irragionevole perdita di tempo. In un anno, dal luglio 2023, non sono riusciti a notificare gli atti e avviare l’udienza preliminare, sicché è ancora indagato e manco imputato. E continua a fare quel che faceva. Una vergogna che reclama una responsabilità, senza la quale si accetterà una giustizia in mano a chi non risponde di quel che non fa, irresponsabile.

2. Dai campi ai cantieri edili quel tipo di manodopera viene reclutato alla luce del sole e lavora sotto gli occhi di tutti. Nelle nostre città ci sono luoghi in cui i candidati si radunano e se ne organizza l’assegnazione. Se, però, ci vogliono 5 anni per neanche far cominciare un processo, il fatto che lo sappiano tutti diventa irrilevante.

3. Si obietta che se si facessero controlli diverse di quelle aziende chiuderebbero, partendo così il piagnisteo contro la burocrazia o la globalizzazione. Farle chiudere sarebbe un bene. Devono chiudere. Perché con questi soggetti il mercato – oltre a essere illegale e immorale – è povero, generando miseria e illeciti. Non è Made in Italy ma Vergogna in Italia. E perché lasciarli operare in quel modo significa fare concorrenza sleale agli onesti. In quanto alla concorrenza: l’Italia la vince nella qualità, non nel prezzo. Vale anche per il fresco, per i manufatti, per le lavorazioni industriali. Vinciamo con l’innovazione e la qualificazione, non con la schiavitù.

4. Mentre avere manovalanza irregolare e in nero è facilissimo, assumerla regolarmente è difficilissimo. Un’azienda agricola che ha bisogno di stagionali fa domande che aspettano mesi per avere una risposta, nel frattempo la stagione è passata. Un datore di lavoro che vuole regolarizzare il soggiorno di chi vuole assumere ci può mettere anni. E questo fa da alibi per gli irregolari e gli schiavisti, che ove beccati possono contare sul fatto che la Procura della Repubblica butta via anni di tempo senza neanche riuscire a portarli a processo.

5. Avere lavoratori in nero significa avere nero con cui pagarli, il che comporta commercio e redditi in evasione fiscale. Lì, sotto gli occhi di tutti, tanto da rendere inascoltabili i proclami di «guerra». Non solo si possono incrociare le banche dati, ma si potrebbe evitare di distogliere e incrociare gli occhi.

6. In condizione di totale o parziale irregolarità si trova il settore del lavoro a sostegno delle famiglie: pulizie, assistenza ai piccoli o agli anziani. Accade non perché siamo tutti criminali, ma perché non si può fare finta che una famiglia sia un’azienda e, se si condizionano gli aiuti agli immigrati al loro basso reddito, si farà crescere la pressione del dipendente a essere pagato in nero. La denatalità sommata alla longevità crea una realtà in cui saremo sempre più bisognosi di assistenza, talché questo settore dev’essere organizzato professionalmente, senza scaricare sulle famiglie l’onere delle formalità. Occorre che siano dipendenti di terzi, fornitori del servizio pagabile in modo tracciato.

7. La politica e la litania istituzionale del «Mai più!» non hanno credibilità, perché l’insieme delle condizioni che creano la necessità dell’irregolarità, la sua tolleranza e l’ostacolo alla regolarità sono state create dal mefitico frullato di pietismo e ostracismo, buonismo e cattivismo, bevuto il quale si casca nell’impotente connivenza.

Non è questione di destra o sinistra, ma di decenza. In mancanza, meglio tacere.

Davide Giacalone, La Ragione 25 giugno 202

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