La missione Unifil non ha più senso. Nei termini stabiliti dalla risoluzione Onu del 2006, numero 1701, non deve e non può continuare. Comporta un rischio sproporzionato rispetto ai risultati, diffonde l’idea di un fallimento – perché molti credono che servisse a portare la pace – e, non bastasse questo, ha assistito a un ribaltamento del suo significato politico.
È un errore approcciare il problema con pose tuonanti, basate per giunta su affermazioni false, tipo: hanno sparato sugli italiani e noi da lì non ci muoviamo. I colpi esplosi da Israele hanno un significato solo politico, non sono stati diretti né a italiani né a soldati di altre nazionalità e tendono a chiedere il ritiro o, almeno, lo spostamento di quelle postazioni Unifil. Prima di rispondere – posto che la decisione non è nazionale, ma Onu – ci si deve chiedere cosa ci si sta a fare. Anche perché chi parteggia per Israele si chiede perché Unifil abbia assistito inerme allo spostarsi di armi e logistica di Hezbollah e chi parteggia per i terroristi di Hezbollah si chiede perché lasci libera l’avanzata israeliana in territorio libanese. Entrambe le domande ignorano scopi e regole cui quei militari sono tenuti a uniformarsi. Tutti noi assieme, però, non possiamo pensare che lo scopo di una forza militare multinazionale sia quello di evitare che i propri soldati siano esposti al pericolo e che siano lesti a chiudersi nei bunker quando gli altri sparano. Un equivoco che nuoce all’onore, alla preparazione e al coraggio dei nostri militari.
Gli scopi di quella missione erano sostanzialmente tre: 1. aiutare l’esercito libanese a fare sì che non esistano altre organizzazioni o formazioni militari; 2. assecondare il ritiro delle forze israeliane (nel 2006 era appena terminato un conflitto); 3. «monitorare» la cessazione delle ostilità, in pratica osservare e riferire. Diciotto anni dopo è assurdo supporre che gli scopi possano restare quelli, visto che Israele si ritirò ed Hezbollah no: a. l’esercito libanese è un fantasma ed Hezbollah dispone di un esercito proprio; b. le forze israeliane tornano ad avanzare; c. il monitoraggio di una simile situazione non ha bisogno di mettere a rischio soldati che possono rispondere al fuoco solo se direttamente attaccati e che non possono prendere l’iniziativa, quindi non costituiscono neanche una tutela per la popolazione civile (come furono all’inizio).
Quando la missione fu ridefinita – né poteva essere diversamente – i soggetti da tutelare erano due ed erano due Stati: Israele e il Libano, con i relativi civili. Da controllare erano le iniziative armate di Hezbollah, finanziata dagli iraniani. Da questo punto di vista anche il mero lavoro di monitoraggio aveva un senso e avrebbe potuto essere un ostacolo all’allargarsi dei terroristi. Avrebbe, perché nella realtà ce li si trova oltre i limiti stabiliti e con tunnel offensivi scavati direttamente al fianco delle recinzioni Unifil. Il che porta al ribaltamento politico: oggi è un ostacolo alla reazione israeliana quel che doveva essere un’assicurazione alla sua sicurezza e un sostegno per la statualità libanese, che non ha alcuna ragione di ostilità con Israele. Il che spiega perché le correnti politiche ostili a Israele – fra le quali va ricompreso il segretario generale dell’Onu – oggi sono schierate a favore della permanenza di una missione Unifil di cui si erano dimenticate.
Si può discutere e si può protestare per il modo inaccettabile con cui Israele ha posto la questione, ma non si può negarla. E va affrontata per quello che è, senza porsi inutilmente le mani sui fianchi e senza parlare di queste cose con la mente rivolta solo alle ricadute sulle propagande nazionali. Unifil o si ritira, subito, prima che prendano corpo rischi peggiori, oppure cambia natura e si diventa veramente interposti. Il che comporta armarsi fino ai denti, sapersi al centro di un conflitto e scontarne le conseguenze. Non si mantiene o si porta la pace da nessuna parte, chiusi in un bunker. Né se ne esce senza sapere per andare dove.
Davide Giacalone, La Ragione 15 ottobre 2024