Le ricorrenze sono micidiali: non si può ignorarle, mentre onorandole si partecipa a un’orgia di retorica. Ma c’è la terza possibilità: che si metta in scena l’orgia dell’ipocrisia, fino a sconfinare nella falsificazione e nel tradimento. È quel che capita il 23 maggio, ogni volta che si ricorda Giovanni Falcone.
Si ricorda la sua lunga e tenace partita contro la mafia, ma si omette di ricordare che gli portarono via il pallone e lo espulsero dal campo. Uscì sconfitto non dalla mafia, che anzi ne avviò è perseguì la demolizione, ma perché isolato dai magistrati e diffamato dal presunto fronte autonominatosi antimafia. Lo accusarono di tenere le carte nei cassetti, di essersi venduto alla politica e segnatamente ad Andreotti, di avere simulato un attentato a sé stesso, di carrierismo. Il Consiglio superiore della magistratura (con la trionfante sinistra a guidare l’attacco) gli negò gli incarichi che chiedeva per combattere la mafia, si candidò lui stesso al Csm e i colleghi gli negarono i voti per arrivarci.
Si ricorda il suo orgoglio di magistrato, ma si omette di ricordare un dettaglio, lui, che era stato giudice istruttore, era per la separazione delle carriere fra magistrati inquirenti (l’accusa) e giudicanti (i giudici propriamente intesi). Un dito nell’occhio della corporazione togata, che scoprì l’afflato solidale solo dopo la sua morte.
Sgradevole? Ma reale. Era ed è legittimo pensarla diversamente da Falcone, non lo è corromperne la memoria per conciliare il proprio essere antitetico con il volersi mostrare condolente e coincidente. Sono degli ipocriti e sono gli stessi. Nella ricorrenza si manifestano, ignorando il pudore.
DG, Formiche 23 maggio 2021