Una morte non è mai una buona notizia. Una morte desiderata dall’interessato è doppiamente triste perché esito di una vita divenuta impossibile, infelice. Come infelice la definizione che se ne dà comunemente: “suicidio assistito”. Un suicida non ha bisogno d’essere assistito: se il vuoto o la disperazione spengono la luce della sua vita, nel buio non vedrà gli ostacoli al trapasso. Di assistenza ha bisogno chi non ha più autonomia di vita e neanche di morte. Sono temi difficili da affrontare e materie in cui è anche tecnicamente difficile legiferare, ma è sconfortante lo spettacolo, davanti alla morte, di un legislatore che fugge ai suoi doveri e di una politica che si rifugia in contrapposti e insulsi sloganucci.
Parlare di costi è miserrimo. C’è chi ha scritto che la nostra concittadina Anna è la prima ad essersene andata a spese del Servizio sanitario. Riprovevole. Anna non è neanche la prima ad andarsene con la pietà e la facilitazione di chi l’assisteva, ma è la prima ad essere stata esplicitamente sostenuta e accompagnata dal Servizio sanitario. Questo il tema di cui occuparsi. Ed è stato possibile – farlo esplicitamente – soltanto perché la strada è stata aperta dalla Corte costituzionale, nel 2019. Negli anni successivi il legislatore non ha trovato né il modo né la voglia di tracciarla.
La Corte mise quattro paletti. I primi due sono: a. la condizione medica deve essere compromessa irreversibilmente, l’esito inevitabilmente fatale; b. a quella condizione si aggiungono sofferenze intense e non solo fisiche. Esattamente i due paletti in base ai quali, nella realtà di famiglie e corsie d’ospedale, la facilitazione della morte si è sempre praticata e, con pietà, sempre si praticherà. Lo si è fatto nell’ombra. Non per criminalità, ma per umanità e rispetto. La Corte ha aggiunto altri due paletti, posto che nessuno è bastevole da solo: c. la decisione dell’interessato deve essere consapevole; d. la sua sopravvivenza dipendere da macchine. Sono questi secondi paletti a diradare l’ombra, a far uscire la pratica dal terreno della pietà e farla entrare in quello della decisione esplicita, che comporta esplicita azione. Per questo è necessario l’intervento del legislatore.
C’è chi dice che legiferare in questa materia apre la strada alla soppressione di chi non è in grado di difendersi. È un non argomento, perché quella roba, che resta un crimine, non aspetta la legge e si soddisfa della malvagità e dell’interesse. Dall’altra parte, però, bloccare la definizione di una norma impedisce la stesura di protocolli da seguire, lasciando troppo alla discrezionalità non tanto del medico o della famiglia, ma della burocrazia sanitaria. Non tutti i medici sono uguali, come non lo sono tutti gli insegnanti, ma se entri in un Pronto soccorso esistono protocolli che devono essere seguiti. Una terapia non può essere troppo standardizzata, come fosse una catena di polpette fritte, ma delle regole sanitarie è obbligatorio seguirle, perché discendono da una legge. Se la legge non c’è tutto è affidato alla casualità del luogo e delle persone che trovi.
Certo che non è facile regolare la collocazione di quei paletti – specie i secondi due – ma neanche si può accettare che ciascuno li ponga dove gli pare. E se il legislatore se ne occupasse seriamente, anziché rilasciare frasi a effetto di due righe, dovrebbe normare anche le condizioni di assistenza. Perché una persona non più autosufficiente, anche senza essere terminale, vive nell’orrenda condizione d’essere un peso per i figli o per altri familiari. La sicurezza è serenità. La libertà è anche assistenza.
Sappiamo da sempre che quando la sofferenza supera la sopportazione la morte può essere una liberazione. Non possiamo accettare che il legislatore si liberi del suo dovere all’azione legislativa. Questo è il prezzo che si paga per far uscire la pratica dall’ombra e darle le vesti del diritto. Non pagarlo non migliora in nulla la vita di chi soffre, ma rende sofferente la civiltà di tutti.
Davide Giacalone, La Ragione 14 dicembre 2023