La spedizione punitiva parla di una realtà che va ben oltre i confini di una faida scolastica, in un Comune della Campania. Genitori e nonni che si muovono compatti per andare a pestare una docente, coadiuvata dal padre che ne rimane ferito, è una scena che prescinde da eventuali torti e ragioni. I Carabinieri, che ora stazionano fuori da quella scuola, sono un presidio basato su un fallimento. Il tema non è quello dei reati commessi in quel contesto, ma il linguaggio che lo caratterizza. Che è poi il linguaggio di tanta, troppa parte della nostra vita pubblica.
Un genitore che teme che il figlio corra dei rischi sporge una denuncia. I genitori che si coalizzano e muovono all’assalto di una scuola e di un docente incarnano la demolizione del principio di autorità e offrono ai propri figli un esempio distruttivo e moltiplicatore d’inciviltà. Eppure credono di agire per il meglio, si mobilitano perché non ritengono esista altro modo di procedere. Non li muove la difesa dei figli, che è soltanto la motivazione di facciata, bensì la difesa dell’idea che hanno di sé stessi. Non possono accettare di non intervenire in quel modo, perché sarebbe come ammettersi inesistenti. Quell’assalto non è una mera violazione del codice penale, ma l’erezione di un codice antropologico. Non basterà punirli, perché nel fatto stesso che ci si provi vedranno la conferma della loro ragione: o provvedo io direttamente o è da fessi credere che una qualche autorità avvicini l’affermarsi di giustizia e regolarità. Sono pericolosi non per quel che hanno fatto, ma per avere dimostrato che quello è il codice comunicativo ritenuto legittimo. Se non doveroso.
La grande parte di noi tutti non lo farebbe mai, ma quello è lo spettacolo pubblico in voga. Se il governante rigetta la legittimità dell’azione giudiziaria, affermando d’essere perseguito perché ha difeso l’Italia (e di aver difeso i figli sono certi quei maneschi congiunti), e se il magistrato rigetta la legittimità istituzionale, affermando che il governante è un soggetto pericoloso, bé, non sarò io il fesso che vista una minaccia avvicinarsi a mio figlio crederò che ci sia un’autorità cui rivolgersi. Ciò conduce alle porte dell’inferno.
Si dovrebbe chiedere maturità e senso di responsabilità ai manipoli familiari, ma scarseggiano sulla scena collettiva. Nel ripetitivo e sempre più vuoto scontro fra politica e giustizia – più esattamente: fra dei politici e dei magistrati – siamo all’infantile rimproverarsi il chi ha iniziato prima. Se gli uni sostengono che nel fare le leggi si tradisce la giustizia e gli altri che nel fare le sentenze si tradiscono le leggi, volete che sia io a scegliere a chi di loro rivolgermi? E se i genitori e i nonni vanno a picchiare il docente nessuno di loro potrà dire ai pargoli che non si spara a un altro solo perché ti ha sporcato una scarpa. Semmai gli diranno che è bene sparargli in separata sede, in modo da non essere arrestati con tanta facilità. Se si sostiene – tanto per alzare gli occhi dalle miserie di casa – che il giudice non è un eletto e quindi non può contraddire l’eletto, è escluso che per un sopruso io vada a raccontarlo ai Carabinieri o in Questura: chi li ha eletti? Siamo circondati da simili demenzialità.
Ci fece paura ascoltare le registrazioni di Radio Radicale a microfoni aperti, con il riversarsi di roca violenza menata a vanto. Ci divertimmo a vedere Funari che aizzava squadre contrapposte di arrabbiati sul niente. Abbiamo sottovalutato il linguaggio degli asociali social, lasciando che troppo pochi ne possedessero la chiave per indirizzare gli umori irrazionali. Abbiamo perculato il politicamente corretto, il woke e la cancel culture, facendo finta di non vedere la pari follia e competitiva inciviltà del politicamente scorretto. Così basta essere triviali e rozzi per trovare un posto nel dibattito pubblico. Quella squadraccia di picchiatori familiari ce la siamo costruita spregiando mediazioni e compromessi, così esaltando l’affermazione degli inetti anche fra gli eletti.
Davide Giacalone, La Ragione 19 novembre 2024
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