Mancano i medici, ce ne sono almeno 4.500 meno di quelli che servono, la penuria rischia di aggravarsi con i prossimi pensionamenti, epperò si deve fare attenzione a non produrne troppi. In questa avvincente contraddizione piovono dichiarazioni sul numero chiuso all’università e sul fare la selezione dopo il primo semestre e non prima che inizino i corsi. Un po’ come accade in Francia. Curioso che diventi Medicina il terreno in cui diagnosi e prognosi si sovrappongono o s’invertono.
I medici scarseggiano oggi e scarseggeranno ancora di più domani, ma se parliamo di ingressi all’università ci si riferisce a chi sarà medico fra una decina di anni. Non proprio la stessa cosa e non si vede come la seconda possa rimediare alla prima. Il numero chiuso è un bene, perché per curare i malati non servono attestati di laurea ma medici qualificati. Non basta aumentare i laureati, occorre che sia alta la loro preparazione. E siccome molta parte della formazione richiede un rapporto ridotto fra docenti e discenti è un bene che ci sia un limite al numero dei secondi per ogni singolo corso.
Spostare la riduzione degli aspiranti dall’ingresso a dopo il primo semestre ha un aspetto positivo: si potranno fare i test su quello che si è iniziato a studiare anziché su temi di cultura generale, prontezza di riflessi e attitudine mentale. Ma ha due aspetti negativi: intanto si devono avere le strutture fisiche per potere fare lezione a tutti quelli che vogliono provarci, mentre ai futuri esclusi si fanno perdere sei mesi inutilmente. Gli aspetti negativi sono gestibili: data la lunga denatalità non è credibile che il sovraffollamento di giovani si concentri soltanto in Medicina e comunque qualche aula più grande si può trovare, dentro o fuori dall’università; mentre i sei mesi persi sono pur sempre frutto di una scelta individuale, con il relativo rischio. Sarà però bene ricordare che già oggi – con i test d’ingresso – i giudicati idonei sono più numerosi dei posti disponibili e ciò significa che l’offerta formativa è inferiore alla domanda. Va aumentata, mettendo in concorrenza le università e chiamando investimenti privati (oltre i già esistenti).
Osserva l’Ordine dei medici che, in questo modo, finiremo con il produrre più dottori di quanti ne serviranno in futuro. Non è un’obiezione sensata, perché non sta scritto da nessuna parte che, per ciascuna professione o mansione, si debba formare solo il numero necessario. Posto che solo il cielo sa chi sia in grado di stabilire quale sarà. Inoltre l’università può sperare di individuare chi sono i bravi studenti, mentre non può sapere chi di loro sarà un bravo medico (ingegnere, avvocato, architetto e via dicendo). Sarà la professione a stabilirlo. Sarà il mercato a premiare i più bravi. Non tutti i dietologi diventano dei divi e non tutti i dentisti hanno la fila dietro la temuta porta. La ragione c’è. Ai ragazzi che avviano gli studi universitari devono essere fornite informazioni chiare su quali prospettive di mercato esistano e su quali siano i risultati ottenuti dall’università che hanno scelto, sia in termini di occupazione che di eccellenze. Il resto si lascia alla loro documentata libertà.
Il collo di bottiglia era al momento delle specializzazioni, con 3 o 4mila posti disponibili all’anno. Ora, grazie ai fondi europei, sono divenuti 17mila. Resta il problema delle specializzazioni poco richieste perché meno remunerate e più a rischio di denuncia, problema che ha a che vedere con il non far funzionare il mercato (quel che è più richiesto solitamente si paga meglio, se l’offerta scarseggia) e il cambiare le norme, per evitare speculazioni. Ovvero il capitolo riforme, praticamente cancellato dal dibattito pubblico.
Il Pd chiede che entro il 2028 si spenda in sanità il 7,5% del Pil. In realtà già oggi spendiamo di più se si somma la spesa privata, che è alta non (solo) perché la pubblica è bassa, ma perché disfunzionale. Roba che avrebbe a che fare la politica, se soltanto la si praticasse come una cosa seria.
Davide Giacalone, La Ragione 26 aprile 2024
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