L’Italia non è il Paese dei femminicidi. Sono in calo nel 2019 e lo erano anche prima. Sono sotto la media europea e ben sotto i Paesi del nord Europa. Ciò non toglie che anche uno solo è troppo, cosa che credo sia ovvia per ogni omicidio. Ma non è la sola distorsione indotta dalle titolazioni a effetto, specie nel campo dei delitti a sfondo passionale (che è il solo modo sensato per definire i femminicidi, posto che vi sono anche vittime maschili, giacché una donna uccisa nel corso di una rapina o da un’altra donna per quale che sia motivo, genera equivoci metterle in quella contabilità). Molti titoli inducono a considerazioni sbagliate anche con riferimento specifico alla passionalità.
Nessuno uccide per amore. Nessuno ama qualcun altro al punto da ucciderlo se questo non corrisponde o asseconda l’amore. Chi uccide con quelle motivazioni è sì accecato dall’amore morboso, ma non verso l’altro, bensì verso sé. La possessività maniacale, che sfocia nella soppressione, è una perversione che non punta a difendere o far valere un sentimento, ma a proteggere sé nel riflesso che il perverso vede nell’altro.
Ci sono sentimenti naturali, ivi compresi la voglia di possedere e la gelosia a quella connessa, ma straripano nella perversione quando si ritiene la condotta altrui non una scelta altrettanto naturale, ma una negazione della propria identità, del proprio ego. Il geloso compulsivo (quale che sia il suo sesso e quale che sia quello della sua vittima), fino alla reazione che porta all’omicidio, è un debole rabbioso che cerca nell’altro la smentita di questa sua condizione. Dice di amare e di agire per amore, ma odia. Ama e odia l’immagine che ha di sé. Descrivere l’amore come movente è offrirgli un alibi. Che non merita e che corrompe la percezione altrui. Va evitato.
DG, 25 settembre 2019