Dopo la stagione del basta ascoltare i sapientoni venne quella del chiediamolo alla scienza. Dopo l’elogio dell’uguaglianza nel non sapere e il supporre che la democrazia comporti magicamente la ragione in capo alla maggioranza (magari! così fosse sai quanti dolori e vergogne ci saremmo risparmianti, nella storia), venne il virus e lo spopolare di camici bianchi, quale divisa di scienza, cui chiedere cosa fare e cosa decidere. Sicché accadde l’inevitabile: posto il microfono alle bocche supposte oracolari s’è udito il loro divergere, nei toni e nella sostanza. Come era prevedibile e come è bene che sia.
Già, perché la scienza non è un insieme di verità assodate e indiscutibili, ma un metodo di ricerca. E il metodo scientifico comporta costantemente il dubitare e il rimettere in discussione. Non bastano mille conferme, scriveva Karl Popper, mentre è sufficiente una smentita fattuale e la teoria elaborata va a gambe all’aria. Naturale che per farmi spiegare cosa sia un virus mi rivolga a un virologo o a qualcuno che ne sappia qualche cosa (magari anche comprendendone l’intelligenza, come in Antonio Damasio, “Lo strano ordine delle cose”, la cui lettura non è preclusa altro che agli ottusi), ma sarei stolto se, già che ci sono, gli chiedessi anche come organizzare la sanità e quali provvedimenti prendere. Devo accontentarmi di sapere che se non c’è il vaccino la sola prevenzione e limitare il contagio. Il resto è affare di chi governa. Che non significa ogni cosa sia buona o tutte cattive.
Supporre che la scienza sia verità in sé e gli scienziati ne siano i sacerdoti è scientismo, ovvero una forma oscurantista di superstizione. È il ripetersi dell’eterno inganno secondo cui il sapere sia trasferimento di verità e non faticosa e perigliosa ricerca di non incespicare nel falso.
DG, 15 marzo 2020