Mettere i soldi sul piatto degli investimenti, avviare le grandi opere infrastrutturali, è cosa certamente migliore che metterli su quello destinato sussidiare gli insuccessi del mercato produttivo. In tempi di magra, con le banche che mostrano il braccino corto nei confronti degli imprenditori veri, mentre restano al fianco di quelli che stentano a stare in piedi, ma devono loro una montagna di quattrini, i soldi pubblici sono doppiamente preziosi: creano posti di lavoro e, se bene spesi, arricchiscono il Paese di migliorie necessarie. Le decisioni prese dal governo vanno in questa direzione, puntando risorse importanti verso lo sviluppo ed annunciando ulteriori interventi nel settore dell’edilizia.
Sono decisioni che, per valutarne l’effettiva portata, dovranno essere studiate con attenzione, sia sotto il profilo del loro finanziamento che relativamente alle opere che si vorranno e potranno avviare subito. Il fatto che la gestione del fondo sia avocata a Palazzo Chigi, sotto la diretta responsabilità di chi guida il governo, è segno che tutti i ministri dovranno uniformarsi agli indirizzi qui stabiliti. Non è poco, considerata la sempre presente possibilità che conflitti fra interessi e competenze finiscano con il bloccare o rallentare tutto.
I due piatti, però, non sono in equilibrio. Berlusconi ha invitato, come è solito fare, a non “drammatizzare” la crisi. Non ce n’è un gran bisogno, in effetti. Le cifre ancora appostate per gli ammortizzatori sociali, però, dimostrano che al governo si sa bene che non si tratta di una burrasca passeggera. L’avere accettato l’idea della cassa integrazione in deroga, indirizzata a lavoratori che non ne hanno diritto e che non hanno versato i relativi contributi, dimostra che si è consapevoli di quanto severa sia la prospettiva. Lo scrivevamo ancora ieri: nulla d’imprevisto, nulla di non gestibile, ma guai a pensare che l’unico intervento necessario sia la spesa. Molti dei soldi pubblici, spesi in altri Paesi europei e negli Stati Uniti, sono stati letteralmente buttati via. Inceneriti dal fuoco che erano destinati a spegnere. Da questo punto di vista l’avere atteso, l’essere stati bloccati da un debito pubblico enorme, ci ha giovato.
Che sul fronte degli ammortizzatori sociali si prevedano spese importanti, ancora praticamente doppie rispetto agli investimenti, è utile a rassicurare i lavoratori, come il presidente del Consiglio ha ripetuto. Meno rassicurante, però, è che ci s’incaponisca a dire che nulla debba essere riformato, partendo dalle pensioni per arrivare alla natura stessa della cassa integrazione. Anzi, è abbastanza incomprensibile che non si voglia sfidare la sinistra sul tema degli aiuti ai disoccupati, dove si dimostrerebbe quanto arretrate e conservative, quindi inefficaci e pericolose, siano le idee che sostengono.
Dire che si devono dare soldi ai disoccupati, come ha fatto Franceschini, è roba da comizio. Affermare che i soldi si devono prendere dalla lotta all’evasione è una battuta di spirito, specie in un anno in cui la crisi inciderà sul gettito. Posto che l’evasione fiscale va combattuta sempre e comunque (ed è orrido dover ripetere una simile banalità), è evidente che se i soldi ai disoccupati venissero raccolti con nuove e più tasse perderebbero del tutto la loro capacità di sostenere la domanda, provocando l’effetto opposto. Come ha ammonito Francesco Forte. Quindi si dovrebbe recuperarli sia da una riforma delle pensioni che da una rivoluzione degli ammortizzatori sociali, che significa del mercato del lavoro. Preoccupa poco che i sussidi renderebbero più facile licenziare, perché questo non è un male, così come è un bene che le aziende bollite falliscano. E neanche è convincente che in momenti di crisi è meglio non toccare nulla perché, al contrario, è proprio in questi momenti che si può raccogliere il consenso riformatore altrimenti scarseggiante, quando le tasche e le pance sono satolle.
La cassa integrazione, così come la conosciamo, funzionava nell’Italia che teneva tutti a galla, scaricando il recupero di produttività e competitività sulle svalutazioni e sul debito. Due leve che ci siamo tolti dalle mani. La maggiore flessibilità, quindi, non è una forma di cattiveria verso i lavoratori, ma, al contrario, una doverosa attenzione verso i giovani ed i meno garantiti.
Le pensioni delle donne che lavorano nel settore pubblico, inoltre, sono una formidabile occasione, perché alzare l’età del ritiro è giusto come principio, per tutti, in questo caso obbligato a causa della sentenza europea che ci ha condannati ed in gran parte indolore, perché le impiegate con la fregola della pensione sono una minoranza. Proprio per queste ragioni, se si cincischia, o si vaneggia di “volontarietà”, si finisce con il comunicare la sensazione del totale immobilismo. Come se l’Italia del passato andasse benissimo anche per il futuro, salvo superare la crisi.
Non è così, gli italiani sanno benissimo di essere cresciuti meno, quindi di avere perso terreno rispetto ai concorrenti, a causa di un mercato ossificato ed una spesa sociale che premia i padri rispetto ai figli, chi si ritira rispetto a chi lavora. La crisi è un’occasione, è il tempo giusto per cambiare e rimettersi a correre. Sarebbe colpevole farsela sfuggire.