Al G7 siedono Paesi diversi, uniti da un comune intento. Come sette diverse note che suonano una sola musica.
Al G7 siedono Paesi diversi, uniti da un comune intento. Come sette diverse note che suonano una sola musica. Quel che era stato deciso è stato confermato, senza alcun tentennamento: le grandi democrazie del mondo sviluppato restano al fianco dell’Ucraina aggredita dal dispotismo imperialista di Putin. È stato fatto di tutto per evitare che la posizione rimanesse ferma. La Russia ha usato gli strumenti della guerra ibrida per aggredirci e condizionare l’opinione pubblica. I falsi pacifismi sono stati dispiegati per mettere in difficoltà i governanti democratici, ma i colpi subiti non ci hanno fatto piegare le ginocchia. Anche dall’Onu, per bocca del segretario generale, non si sono voluti lasciare margini di dubbio: la pace in Ucraina dev’essere riconquistata, senza cedere territorio. L’aggressione dei russi deve continuare a essere quel che è di già: una sconfitta dei russi. L’alternativa non è far tacere le armi, ma consentire di credere che con il loro uso si possano spostare le frontiere. Spalancherebbe le porte dell’inferno.
Naturalmente ci sono stati anche altri temi in discussione e il discuterli non sempre produce la concordia. Ed è bene che sia così, perché il mondo libero è espressione di idee e interessi plurali. Il lungo negoziato sull’uso dei proventi generati dai beni sequestrati a russi, approdato adesso a una decisione che comporta un ulteriore contributo di 50-60 miliardi all’Ucraina, è la dimostrazione che la fermezza nel contrastare la Russia non si vuole che comporti leggerezza nel venire meno ai capisaldi del diritto che presiede alla difesa della proprietà privata e alla credibilità delle nostre istituzioni.
Il G7 era in programma da molto tempo, ma il suo giungere in una stagione elettorale (appena conclusa per il Parlamento europeo, a fine mese in Francia, a novembre negli Usa e poi in Germania) aiuta a dimostrare che la ricerca del consenso non è stata e non dev’essere fatta mettendo a rischio gli interessi nazionali e dell’insieme delle democrazie. Una notevole prova di forza. Una prova che sarebbe sprecata se si accedesse alla tesi secondo cui attorno a quel tavolo, in Puglia, siedono protagonisti indeboliti o anatre zoppe (con riproduzione imitativa di un modo di dire americano). Un grave errore di grammatica istituzionale. Una dimostrazione che gli abitanti delle democrazie talora non conoscono la democrazia che abitano.
Al tavolo del G7 non siedono le persone ma i Paesi. Come accade, del resto, al Consiglio europeo. E mai un Paese – sia esso la Francia o l’Italia, la Germania o gli Stati Uniti – può essere considerato monco o zoppo. Di ciascuno si può misurare la ricchezza o la crescita, ma non la legittimità piena e la pienezza della rappresentanza nel sedere a quei tavoli. Il fatto che questo o quel governante sia prossimo alla scadenza o appena colpito da un insuccesso elettorale, come anche sia reduce da un trionfo, riguarda la sua posizione all’interno della sovranità in cui si esercita la democrazia, quindi nazionale. Nessuna di quelle condizioni neanche sfiora il peso di chi rappresenta il proprio Paese. Né ha alcun significato il fatto che chi oggi compartecipa a prendere delle decisioni poi non ci sarà domani, quando si tratterà di metterle in atto, perché non sta decidendo per sé ma per il proprio Paese, che sicuramente ci sarà.
Nelle democrazie i governanti sono sempre pro tempore. E se si pensa che questa sia una debolezza si passa direttamente a idolatrare i dispotismi. Ma i Paesi in cui i governanti cambiano sono migliori e più ricchi di quelli in cui non cambiano se non perché crepano o li fanno fuori. L’Italia che guidò gli europei a riconoscersi pienamente nella sorte degli ucraini era temporaneamente governata da chi oggi non è più al governo. I governi passano, l’Italia no. È un vero peccato che il decadimento personalistico della riflessione politica e della rappresentazione giornalistica faccia perdere di vista quel che segna la superiorità democratica del nostro mondo.
Davide Giacalone, La Ragione 14 giugno 2024