Qualcuno si è appassionato alla discussione sul salario minimo, altri hanno preferito discettare della sorella chiamata a governare i Fratelli. Non è capitato, però, di sentire riferimenti a due articoli della nostra Costituzione, che hanno a che vedere con quelle realtà: il 39 e il 49. Non è una questione da azzeccagarbugli, ma un risvolto che potrebbe portare ad azzeccare qualche idea interessante.
Che ci fa con il salario minimo un Paese in cui quasi tutti i lavoratori dipendenti sono inquadrati secondo contratti collettivi nazionali, che già comprendono i minimi salariali? Ovviamente in nessuno di quelli è compreso il lavoro nero, per sua natura in evasione fiscale e contributiva, ma questa non è faccenda che possa essere affrontata con il salario minimo. Poi ci sono quelli estranei a quei contratti, ma qui la faccenda si fa numericamente ristretta, considerato che molti fra loro guadagnano ben più dell’ipotetico minimo. Ma ci sono anche contratti collettivi con un minimo molto basso, e qui interviene il 39. Perché quei contratti sono validi se stipulati da sindacati registrati.
Leggiamolo (i numeri si riferiscono ai commi): “1. L’organizzazione sindacale è libera. 2. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. 3. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. 4. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione ai loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Tale articolo non è mai stato applicato, non è mai stato stabilito cosa sia uno statuto a base democratica, sicché ha preso corpo solo il primo comma. Con il che tutto resta per aria.
Se così non fosse – come la stessa Commissione europea ha osservato – l’Italia potrebbe pure fissare per legge quel che è già fissato nei contratti, ma non cambierebbe nulla. Invece cambia, proprio perché la Costituzione è rimasta lettera morta. È singolare che non lo si faccia osservare e che a reclamare la legge siano i sindacati che stipulano i contratti.
E i partiti? Stringatissimo l’articolo 49: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. In questo caso il metodo democratico si riferisce al determinare la politica nazionale, non quella dei singoli partiti. È anche ovvio: se fondo il partito che porta il mio nome e stabilisco che chi aderisce lo fa perché comando solo io, sarebbe poi curioso mi venissero a dire che altri debbano influire. Posso solo consigliarvi, in un raro momento di lucidità, di non iscrivervi. Ergo: se mi trovo con poco tempo a disposizione ci metto chi mi pare. Ed è questo il punto.
Quando lavorarono alla stesura di quel testo non avevano dubbi su cosa fosse un partito: un’associazione di idee ed interessi, con una sua storia, nella quale possono trovare spazio capi carismatici, ma nessuno di essi avrebbe potuto disporre della storia e degli ideali del partito. Togliatti era il capo, ma non era il proprietario del comunismo. Ugo La Malfa un capo assai determinato, ma non il proprietario dei repubblicani. E così via. Tanto che ciascuno di quei capi dovette fare i conti con dialettica ed opposizioni interne. Quando metti il nome di una persona a un partito quello è dipartito, non è più ciò di cui scrissero i Costituenti. Quando si elegge un capo senza discutere una linea politica sarà pure un partito, ma di politico ha solo il settore di mercato.
Non è un problema solo nostro. Le democrazie soffrono di partiti rattrappiti a comitati elettorali di persone che, con tutto il rispetto, non sono la storia. Ma manco l’ideale. Male assai se si concludesse che servono guerre e calamità per generare politici e partiti di qualità.
Davide Giacalone, La Ragione 3 settembre 2023
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