L’ipotesi che, per finanziare l’accoglienza dei profughi, si possa sforare il 3% del deficit, comporta una doppia negatività. Due trappole.
1. Per anni s’è reclamato quello sforamento, supponendo che i soldi servissero per gli investimenti. Lo consideravo un errore, condividendo il necessario rigore dei conti. A parte il fatto che l’Italia, per rientrare dal debito eccessivo, è tenuta a deficit inferiori, talché far riferimento al 3% significa non capirlo o far finta di non capirlo. Se l’inflazione è praticamente a zero e la crescita molto debole (quando non recessione), fare deficit significa aumentare il debito. Quindi accrescere il male anziché curarlo. Ben vengano gli investimenti, anche pubblici, ma tagliando la spesa corrente e vendendo patrimonio. Ha senso sforare il deficit (restando un fatto negativo) se compensa il costo temporaneo di riforme profonde del mercato. L’arrivo dei profughi non ha nulla a che vedere con questo.
2. Scrissi subito che non mi piaceva la decisione tedesca sui profughi siriani. Non nel merito, ma perché, ancora una volta, s’era cancellata l’ipotesi di una politica comune europea. Piano piano, dopo gli iniziali conformismi, vedo che tale lettura trova consensi. Ma se, dopo una decisione unilaterale, scatta l’obbligo delle quote, cui ciascun Paese deve attenersi o compensarle in denaro, e se per finanziare il costo dell’operazione è possibile fare più deficit, ciò porta a una conseguenza incredibile: è lecito indebitarsi di più se questo favorisce il finanziamento della politica estera altrui. Difficile immaginare maggiore stoltezza.
Da europeista non germanofobo né germanofilo (bene il rigore male l’unilateralità), provo a indicare una via ragionevole. Se accogliere i profughi è un dovere (e lo è), se l’amministrazione delle frontiere, quindi della distinzione fra asilanti e migranti (con conseguente rimpatrio dei secondi non accoglibili), diventa un problema e una pratica comuni, se la decisione di intensificarne l’afflusso è il frutto di decisioni collegiali, non di iniziative singolari, e se, infine, questo comporta un costo aggiuntivo e non previsto, allora lo si copra dal bilancio dell’Unione, finanziandolo ulteriormente con l’emissione di titolo del debito europeo. Sarebbe un’occasione preziosa, per affermare due giusti principi: a. l’Unione delle decisioni politiche e la corresponsabilità nella gestione dei flussi (lasciandosi alle spalle il regolamento di Dublino); b. l’intestazione all’Unione del debito prodotto per finanziarne le scelte e le politiche.
I travagli delle frontiere interne, l’enorme rischio che sta correndo il loro positivo abbattimento, deriva prima di tutto dal fatto che chi non ha frontiere esterne ha scelto di avere una politica nazionale dell’accoglienza. Prima ancora di discutere se l’apertura sia saggia o meno, se convenga o meno (certo che i tedeschi scelgono fra quanti si spostano, ma sbaglia chi non lo fa), rendiamoci conto che si tratta di un errore. Che a sua volta riflette l’assenza di collegialità, fin qui coperta con gli appuntamenti intergovernativi. Ora c’è l’occasione di rimediare.
Il vertice europeo del giorno 14 può affrontare in questo modo il problema, dimostrandosi sia vertice che europeo. Altrimenti passerà agli archivi come ulteriore rito inconcludente ed ennesima occasione persa.
Pubblicato da Libero