Politica

Agnelli: i conti con l’Italia

Non è (solo) una questione ereditaria, quella che agita gli Agnelli, non riguarda esclusivamente i familiari, ed eventualmente il fisco. Ci riguarda tutti, perché s’è aperta una finestra sulla pubblica immoralità, ha preso corpo, sotto forma di capitale illecitamente detenuto all’estero, il vizio etico del capitalismo italiano, la sua propensione a socializzare le perdite e privatizzare i profitti. La Fiat, quindi gli Agnelli, s’è retta in equilibrio grazie a palate di aiuti pubblici. Per giunta il capofamiglia, Gianni, non ha risparmiato lezioni di moralità, raccolte come fossero parole semidivine. I quattrini fatti defluire in conti segreti, quindi, non interessano solo gli eredi, ma tutti. Sgorga dal cuore: ridateceli.
Lo scrivo essendo un sostenitore del capitalismo ed un difensore del profitto personale. La ricchezza non è segno di nefandezza, perché può e deve essere la misura del merito. Il libero mercato non è una giungla, dove vige la legge del più feroce, ma il luogo dove meglio si allocano le risorse, lo strumento che meglio indirizza lo sviluppo, il più capace nel dare valore collettivo al sano desiderio d’arricchirsi. Tutto questo, però, presuppone il rispetto delle regole, comprese quelle fiscali. Quando le regole sono sbagliate (e capita spesso), vanno cambiate. Se si è ricchi e potenti, come gli Agnelli furono ed ancora restano, si ha il dovere di impegnarsi per cambiarle in modo efficace. Se, invece, si violano per meglio farsi gli affari propri, si è dei malfattori.
Da mesi si trascina una contestazione ereditaria, basata sul fatto che uno degli aventi diritto sostiene d’essere stato danneggiato da quanti erano, fiduciariamente, incaricati di eseguire le volontà del defunto. L’accusa è quella di avere nascosto dei soldi. Tanti. Gli esecutori ribattono non negando l’esistenza del tesoro, ma sottolineando la loro fedeltà al mandato ricevuto. Fatto è, del resto, che Gianni Agnelli non è morto né giovane né improvvisamente, quindi ha avuto tutto il tempo per prepararsi, sapendo di lasciare qualche cosa in più di due camere e cucina. Il suo egoismo lo ha, forse, disinteressato alla sorte dei successori, ma non a quella dei suoi soldi, cui era intimamente legato. Dalla lite odierna emerge che una cifra enorme, fra l’uno ed i due miliardi di euro, sarebbe stata nascosta all’estero. L’Agenzia delle entrate se ne occupa, e staremo a vedere. Ciò che ci riguarda è: da dove arriva, quella montagna di quattrini?
La ricchezza degli Agnelli si deve all’intuizione del fondatore, che credette nella mobilità personale, e nell’automobile alla portata di molti, come alla capacità di convivere e far affari con il regime fascista. Ma esplode negli anni del boom economico, durante la reggenza di Valletta, quando Gianni era giovane ed assai impegnato a far la bella vita. L’intera struttura proprietaria della Fiat è allocata in Italia, nota al fisco, regolarmente trasmessa agli eredi. L’enorme ricchezza accumulata all’estero, quindi, deriva da attività del tutto sconosciute o, assai più probabilmente, da azioni in danno della Fiat stessa, quindi del mercato, dei risparmiatori, dei lavoratori e del fisco. Esempio, del tutto ipotetico: se intermedio attività di fornitura, con società di fantasia, allocate in paradisi fiscali, accresco i costi di produzione dell’azienda, ma costituisco capitali nascosti e che sfuggono al fisco. Può convenire, e molti lo fanno, in Italia e nel mondo. Fiat, però, ha una particolarità: quando si è trovata in difficoltà è stata aiutata con soldi pubblici, è stata sorretta dalle rottamazioni e, quando non produceva motori diesel, agevolata dal superbollo e dal costo elevato del gasolio. Insomma, dentro quell’azienda ci sono molti soldi di tutti, finiti anche nei conti personali e segreti di chi aveva la faccia del più grande e rispettabile imprenditore italiano.
Nel 1992-1994, gli anni del giustizialismo manipulitesco, partiti politici dalla storia secolare chiusero i battenti, accusati (giustamente) di essersi finanziati illecitamente. In quel frangente Gianni Agnelli capì di dover giocare il proprio carisma, ammettendo che anche la Fiat s’era piegata, ma poco, con il filtro, al pagare tangenti. Si disse concusso, lui che era il più potente di tutti. Chiese scusa, con stampa e magistratura che gli credettero. Peccato che, contemporaneamente, ad esclusivi fini d’arricchimento personale, sottraeva alla collettività alcuni vagoni di quattrini. Finì sul banco degli imputati una classe politica che aveva (fra le altre cose) aiutato Fiat, mentre s’iscrisse al gruppo degli accusatori il vecchio Gianni, che i soldi di quegli aiuti li portava velocemente nell’altra tasca, riservata.
Un ultimo elemento: i particolari no, ma la sostanza la conoscevano tutti. Sicché oggi, a seguito di vicende ereditarie che mettono in luce un ambiente in cui si sente più la mancanza dell’accredito che quella del congiunto scomparso, ci si offre la possibilità di segnalare i due mali profondi, della nostra società: il moralismo a corrente alternata, secondo l’antico adagio giolittiano, che stabiliva l’obbligo di applicare le leggi, ai nemici, ma la facoltà d’interpretarle, per gli amici; ed un capitalismo familiare e profittatore, che ritiene l’etica sia un fastidio, e non il baluardo per liberarsi dei peggiori. Finché a questi mali non si pone mano, sia con strumenti legislativi che culturali, scordatevi di potere assistere alla diminuzione della pubblica corruttela.

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