Gianfranco Fini esce, Pier Ferdinando Casini è alla porta, Francesco Rutelli s’affaccia. Movimenti in corso, nel condominio delle libertà. Non ci si deve far distrarre, però, dalle considerazioni sulle persone, non ci si deve far mettere fuori strada da simpatie e antipatie, perché in questi giorni estivi si consuma il tentativo di dare un senso politico alla legislatura, disegnando anche il possibile sbocco elettorale.
Giuliano Ferrara e Fedele Confalonieri, come a dire il cuore e la carne stessa di Silvio Berlusconi, si sono spesi per dire che, in fondo, si poteva anche tirare avanti senza acuire le rotture, senza consumare divorzi. Ed è al primo che, non a caso, Fini si è rivolto per lanciare un messaggio che, forse, voleva essere distensivo: basta, piantiamola lì, resettiamo tutto, non saremo amici, ma dobbiamo essere alleati. La risposta è negativa, perché il punto di non ritorno è stato superato con l’uso politico delle inchieste giudiziarie, quando l’alleato (sedicente) cofondatore ha imbracciato la stessa carabina con cui i cecchini, da anni, sparano contro il presidente del Consiglio. Quando Fini ha detto che gli inquisiti devono dimettersi è chiaro che puntava a mettere in dubbio la legittimità stessa della leadership berlusconiana. Altro che minoranza interessata a discutere! Da quel punto in poi non c’è più verso di fermarsi, come un aereo che ha preso la rincorsa e si trova a fine pista: o decolla o si schianta.
La rottura si consuma sul tema della giustizia, non a caso lo stesso sul quale Casini ha sempre, prudentemente, sottolineato le convergenze con il centro destra. Per costruire la svolta politica, allora, occorrono tappe certe e un disegno coerente. Le tappe sono due: a. ritiro (finalmente) dello sgorbio sulle intercettazioni telefoniche, oramai divenuto un inutile oggetto di divisione istituzionale; b. elezione del nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, magari con un uomo di Casini (Michele Vietti) a far da vice presidente. Il disegno ha spessore politico: ricomporre, in Italia, la famiglia del Partito Popolare Europeo.
Lo strumento della svolta è un documento politico, che impone a Fini l’umiliante sottomissione o gli indica il portone d’uscita. Ove mai si rifiutasse d’imboccarlo, invocando la coerenza con il mandato elettorale (poteva pensarci qualche minuto prima), subirà due conseguenze: 1. il fiorire d’inchieste e rivelazioni giornalistiche, utili solo a dimostrare che può essere massacrato chiunque giochi al massacro; 2. la procedura d’espulsione per gli uomini che si sono mossi in suo nome, con la loro messa al bando dai gruppi parlamentari.
Una volta tanto, per capire quel che stava accadendo, è stato utile leggere i giornali. Quando il Corriere della Sera ha deciso di mettere in pagina le riflessioni di chi si mostrava preoccupato per il Paese, incline a non ritenere utili le elezioni anticipate e pronto a suggerire una ricucitura fra Berlusconi e Fini, si sono chiariti i confini della trappola: il Quirinale (la cui eco risuonava in quelle pagine, nonché vera sponda dell’operazione) non concede le elezioni, Fini attacca a testa bassa e lima le truppe parlamentari, mentre Berlusconi subisce fino a stramazzare. Per non mettere il piede nella tagliola c’erano e ci sono due modi. Il primo consiste nel dimostrare che caduto Berlusconi la legislatura non può andare avanti, e, in tal senso, ci sono diverse pezze d’appoggio istituzionale, ma un brutto handicap: all’interno della maggioranza c’è chi è pronto a sostenere il contrario. Il secondo modo consiste nel dimostrare che la maggioranza può cambiare senza deperire, ovvero: piuttosto che pagare un prezzo a Fini, che incurante del voto catalano continuava a infilare banderillas sul groppone berlusconinano, meglio pagarlo a Casini. Tanto più che il favoleggiato “terzo polo” resterà nel mondo della fantasia e, su quel terreno immaginario, si ritrova da sola anche l’Api di Rutelli. Che non vola, quindi cerca d’atterrare.
Questo è quel che vedo e, credo, abbiano in mente. Siccome m’annoio io a raccontarlo non oso immaginare voi a leggerlo, e me ne scuso. Quindi aggiungo subito: non serve a risolvere neanche uno dei problemi che il governo e l’Italia hanno di fronte, ma neanche la corrida perpetua serviva a niente, tanto più che il toro non accennava minimamente a far la parte che gli altri gli avevano assegnato. Giunti a questo punto, se si vuole evitare che lo spettacolo sia sanguinolento e inconcludente, quindi sommamente crudele perché inutile, occorre che il presidente del Consiglio prepari un nuovo discorso programmatico, sul quale, magari alla ripresa, aprire la nuova stagione. E, tanto per venire alle cose concrete, stiano bene attenti, dopo l’invereconda pantomima della legge sulle intercettazioni, a puntare tutto e subito sul legittimo impedimento, o altre norme che riguardino solo sé medesimi. Abbiano, piuttosto, il coraggio, la lucidità e la decenza d’impostare una battaglia vera, seria e profonda contro la malagiustizia, un cancro che divora il Paese, avvelena la politica e imbambola gli astanti.
Su quel tema, come su altri decisivi (sistema dell’istruzione, sanità, fisco, sicurezza), ci si deve misurare per potere guardare senza vergogna alla fine della legislatura, perché su quello potrà costruirsi l’identità politica che dia rappresentanza alla maggioranza degli elettori, o su quello si giustificherà la caduta. Su quegli stessi temi, del resto, si misurerà l’esistenza e la consistenza di una sinistra che non voglia essere il vacuo nulla oggi sulla scena.