Siamo spettatori molto interessati, ma pur sempre spettatori. Tanto più che, nella politica americana, il peso di quella estera è ridotto. Chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti è rilevante per loro, ma anche per noi. Finita la seconda convention, stabilito quel che era scontato, ovvero l’identità dei due candidati (principali, perché ce ne sono anche altri), la campagna elettorale lunghissima entra nella sua fase finale. Quel che vediamo, però, è già molto significativo e i segnali che si scorgono sono validi e presenti anche nella politica europea. Il partito che perderà le elezioni sarà successivamente profondamente trasformato. Non si limiterà a cambiare leader e candidati: cambierà pelle.
Se a essere sconfitti saranno i repubblicani per loro finirà la stagione trumpiana. Che non è stata solo una solida leadership, ma anche una presenza esterna che ha cambiato il codice genetico del partito, estremizzandolo e assegnandogli più una missione di rivalsa che non di costruzione. Non a caso gli esponenti di spicco e peso politico lo hanno già – esplicitamente o di fatto – abbandonato. Trump sarà ricordato nella politica americana e nei libri di politologia, ma il Gop proverà a dimenticarlo il più in fretta possibile.
Se la sconfitta andrà incontro ai democratici è probabile che al prossimo giro (la campagna comincia due anni dopo il voto, con le elezioni di medio termine) nessuno si farà venire in mente come candidata la moglie di un ex presidente e alla convention, forse, non ci saranno le giornate dedicate ai gruppi familiari, come ora accade con i Clinton e gli Obama. Per paradosso, il partito della sinistra statunitense è divenuto una gerarchia di dinastie: il partito giovane è divenuto anziano.
Il cambiamento avrà qualche speranza, in casa democratica, anche in caso di vittoria. Ne avrà poche o nessuna in casa repubblicana, sempre in caso di vittoria. Nel primo la candidata è del partito, nel secondo il candidato è di sé stesso.
La trasformazione dei due partiti, questo è il punto, non è avvenuta autonomamente e nel vuoto ma rispecchia i cambiamenti sociali e gli andamenti culturali. Il che riguarda gli Usa, ma anche i Paesi dell’Unione europea. Non è che le vecchie scuole politiche – che per semplificare potremmo drasticamente ridurre a quelle liberaldemocratica, popolare e socialista (negli Usa la terza era liberal ma non socialista e la prima era presente in ambo gli schieramenti) – promuovessero l’amore fra i contendenti e la fratellanza elettorale. Gli scontri erano durissimi e gli elettorati, tutto sommato, abbastanza stabili nel riconoscere e votare la propria famiglia. Ma la storia aveva insegnato a quelle scuole e famiglie che ci sono valori e beni nazionali indisponibili e che l’avversario lo si poteva e doveva combattere senza esclusione di colpi, ma non considerarlo un nemico. Questo costume si è perso.
Negli Usa l’elettorato, che raccoglie circa il 50% dei cittadini, è diviso in due. Poco male, ma è male che l’una parte non riconosca l’altra. Quando il candidato repubblicano Dick Cheney perse contro Barack Obama non chiamò la rivolta ma fece un bellissimo discorso. Sapeva due cose: 1. le istituzioni sono più importanti delle persone; 2. il partito e i suoi ideali devono sopravvivere ai candidati, che siano vincenti o perdenti. Guardate anche dalle nostre parti e osservate quanto quel nobile e conveniente costume sia stato dismesso. E le cose sono legate: se i partiti diventano personali e leaderistici è impossibile credere che abbiano vita indipendente dal candidato; e se non lo si crede non ha senso menarla con le istituzioni, perché la partita si gioca tutta qui e ora.
È successo perché le cose vanno male? No, perché vanno bene. Restiamo l’area più ricca e libera, la migliore del mondo. Però non la si considera una conquista, bensì un diritto scontato. E quel che manca lo si cerca non negli errori ma nelle colpe altrui. No, non tutti vivono di odio, ma lo fanno in troppi.
Davide Giacalone, La Ragione 24 agosto 2024