Finirà nel nulla, ma contiene molto. Il retroscena appassiona chi preferisce le suggestioni alla realtà, mentre il peggio è sul proscenio, davanti a tutti. Nessuno lo vede perché è considerato normale. Nelle parole di Giuliano Amato, circa quel che avvenne a un aereo Itavia, si trova il seme di un male antico dell’Italia. Antico e persistente, anche perché non riconosciuto come un male: lo Stato sono sempre gli altri; l’Italia è sempre quella di altri e altri sono gli italiani; alla storia si offre la propria irresponsabilità, mai la propria responsabilità. E questo toglie dignità al discorso pubblico, alimentando la sfiducia, cancellando la coerenza (che è essa stessa moralità della politica) e premiando l’arte di trasformarsi senza ammetterlo.
Le sentenze si rispettano, ma anche si discutono e criticano. Le sentenze non scrivono la storia, ma sono parte della storia. Per le sentenze, come per ogni altra cosa, ci sono le critiche a vanvera e quelle ragionate. È sciocco che si chiedano ad Amato le ‘prove’ di quel che ha detto: non siamo a un processo – ci sono già stati – e che prove volete mai che porti se sostiene che ad abbattere l’aereo fu un missile di cui non s’è mai trovata traccia? Quel che gli si deve chiedere è la fondatezza razionale di quel che sostiene e di trarne le conseguenze che ne derivano. Le suggestioni servono a nulla, sono anzi depistaggi.
La cosa va vista non con l’approccio del piccolo investigatore, destinato all’insuccesso, ma dall’angolo visuale istituzionale. Amato parla di «tentativi di depistaggio messi in atto da generali e ammiragli». L’insieme delle nostre Forze armate. Noi tutti sappiamo che la giustizia ha assolto i militari «perché il fatto non sussiste», ma le sentenze si possono discutere. Mettiamo, dunque, che abbiano depistato. Ci sono soltanto due possibilità: 1. i militari lo hanno fatto su ordine del governo quindi, omessi i riferimenti alle responsabilità penali (escluse), la responsabilità della scelta è politica, legata al contesto; 2. i militari lo hanno fatto ingannando la giustizia ma anche il governo, quindi sono dei traditori.
Nel primo caso è vile sia scaricare la responsabilità sui militari sia supporre di potersi considerare estraneo alla scelta politica, visti i ruoli svolti e considerata la chiamata in causa di Bettino Craxi, che ad Amato non era estraneo. Supporre che una responsabilità politica del primo non ricada sul secondo che gli stava a fianco non è neanche vile, è stolto. Nel secondo caso non basta dire che si sono ripetute cose note, perché da presidente del Consiglio la questione del tradimento andava posta. In quanto tale. L’alternativa consistendo nel ritenere traditori i militari e cretini i governanti, in loro balìa.
Dice Amato: si è organizzata un’esercitazione Nato, in modo da mascherare il lancio di un missile francese, ove l’errore sarebbe stato (ovviamente) il bersaglio. Aggiunge anche che l’Italia era un Paese «a sovranità limitata». Lo fece presente a Craxi, in occasione di Sigonella, quando i Carabinieri circondarono gli americani? A tutto volere concedere, il racconto è privo di senso, per due ragioni: a. abbattere Gheddafi nel corso di una esercitazione Nato avrebbe reso ben più clamoroso e grave il fatto; b. la Francia era uscita dal Comando integrato Nato nel 1966 e le sue Forze armate sono state reintegrate nel 2009; il governo italiano, in cui nel 1980 erano presenti anche i socialisti di Amato, non era stato informato manco della partecipazione francese? Qui, più che a sovranità, si sarebbe a intelligenza limitata.
Cosa accadde quella disgraziata giornata non lo sappiamo e siamo pronti a discutere di tutto, ma se quello fu lo scenario allora mancano delle parole: abbiamo governato male perché non eravamo all’altezza, io non ho avuto il coraggio delle mie convinzioni, ho coperto i depistaggi o sono stato incapace di vederli. Altrimenti va come Meloni a Caivano: «Qui lo Stato ha fallito». Perché lo Stato è sempre di altri. Semmai: abbiamo fallito. Oppure si sta mestando nel torbido, alimentando l’antistatalismo presente nella nostra storia.
Davide Giacalone, La Ragione 6 settembre 2023