Talora ci si domanda come sia possibile. Abbiamo imprenditori e lavoratori che sanno competere sui mercati internazionali, innovatori capaci e giovani che descriviamo come apatici ma che dimostrano di sapersi adattare ai cambiamenti, anche del mercato del lavoro. Eppure siamo inchiodati da lustri, vediamo crescere il numero dei lavoratori e non la produttività, generando lavoro a basso valore aggiunto. Com’è possibile? Facile, basta guardare gli arenati. Tanto ridicoli quanto pericolosi.
Parlare ancora delle concessioni balneari fa venire voglia di pascolare l’estate in una malga. È deprimente che il problema sia ancora lì e che si spendano tutte le energie per provare a scantonarlo. Quando risolverlo sarebbe facilissimo e nell’interesse di tutti. Proprio di tutti, compresi gli attuali concessionari che potrebbero lavorare in pace avendo orizzonti temporali decenti, invece di campare alla giornata e pensando che ogni anno potrebbe essere l’ultimo: una condizione in cui è temerario fare seri investimenti e grandi innovazioni. I soli a rimetterci sarebbero i profittatori e quelli che vivono di rendita, quelli che hanno la concessione da tempo e non hanno più neanche rifatto il cesso, quelli che credono il servizio consista nel consentirti di fare il bagno, mentre il loro mestiere sarebbe quello di offrire servizi prima e dopo il bagno, dato che quello lo si deve solo all’esistenza del mare, che non dipende dal loro buon cuore.
Il governo, al solo scopo di non dovere fare i conti con le balle che i loro componenti raccontarono agli elettori, ha promosso un surreale censimento delle coste, sostenendo che il bene da assegnare – le spiagge – non sia affatto limitato. Ora, a parte il fatto che nel censimento hanno messo anche le scogliere e il demanio innanzi alle città, l’argomento è del tutto privo di consistenza: se desidero avviare un’attività ad Alassio non potete rispondermi che c’è spazio a Marsala; potete dirmi che altri ci sono prima di me, che la mia offerta è meno interessante di un’altra, ma non che c’è spazio all’altro capo d’Italia. Per un’attività spesso a conduzione familiare e comunque stagionale.
Anche sui numeri si sentono dire cose curiose: più di 30mila concessionari, dicono dal governo. Invece le concessioni sono poco più della metà: 15.514 (altre fonti dicono 12.166). Ma un buon numero di concessionari ha due o più concessioni, quindi potrebbero essere la metà della metà di quel che dicono al governo. Magari potrebbero promuovere un bel censimento delle concessioni e dei concessionari, lavoro utilissimo per poter organizzare le gare. In ogni caso, anche fossero ancora meno, non significa che non si debba tutelarli, ma ciò comporta l’affidare loro concessioni durevoli. L’attenzione dovrebbe concentrarsi sui bandi di gara e sulla valorizzazione degli investimenti, non sul fare o no le gare. Invece s’invoca un pericolo inesistente – ovvero la colonizzazione dei bagnini olandesi – e si dimentica che andrebbero tutelati anche i bagnanti (molto più numerosi), che pagano in assenza di concorrenza e quindi possono trovarsi a pagare troppo per troppo poco. E c’è da tutelare il mercato del turismo, con offerte migliori.
La pretesa di considerare ‘italianità’ la difesa ottusa di stabilimenti vecchi (sperando siano regolari gli occupati) – sbarrando la strada a giovani che vogliano intraprendere e innovare – fa il paio con l’Italia fra le prime mete turistiche del mondo e con una sola catena alberghiera italiana. Perché se impedisci la crescita inneschi la decrescita e allora sì che accade quel che si crede di evitare: i piccoli vendono ai grandi investitori, che per nostra arretratezza finanziaria e fiscale sono in gran parte non italiani.
Il Consiglio di Stato, per la seconda volta, ricorda al governo che esiste il diritto. In generale occorrerebbe ricordarlo a chi fa politica, perché gli alfieri del diritto alla concorrenza mi sono sfuggiti, anche nella sinistra. In ogni caso questo è l’andazzo che spiega come si faccia a restare arenati.
Davide Giacalone, La Ragione 3 maggio 2024
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