Politica

Banche e istituzioni

L’ingenuo Piero Fassino s’entusiasmava all’idea che si potesse avere una banca, e non s’avvedeva che i compagni scalatori avevano già fatto cassa, per sé. Umberto Bossi non pensa di far scalare le banche, e l’unica realizzata sotto la regia verde ha dimostrato che non è facile far tornare i conti. Le parole del capo della Lega, la strategia che ha disegnato, non solo riportano in evidenza il mai tramontato rapporto fra banche e potere, ma segnalano la vicinanza con l’altro tema generale, più dibattuto che fattivamente trattato, quello delle riforme istituzionali.

Non sembri ardito l’accostamento, ma l’ostinata conservazione della struttura costituzionale del passato, a lungo andare, non solo non favorisce la sopravvivenza degli equilibri di un tempo, ma rischia di mettere il federalismo e i nuovi orientamenti elettorali sulle spalle di un’architettura costituzionale che, sotto quel peso, schianta. Se si vuole conservare lo spirito della Carta, insomma, si dovrebbe cercare di cambiarla. Così, nel campo del credito, le fondazioni bancarie, con i loro ancoraggi municipali e la loro dipendenza dai campanili, dovevano servire per accompagnare il passaggio dalle banche dirette dalla politica nazionale, mediante le liturgie del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio, e con l’uso codificato della lottizzazione, a banche più vicine al mercato, e da questo possedute. Senonché, gli strumenti non sono indifferenti a chi li usa, e un martello puoi usarlo per piantare i chiodi o per dartelo sulle ginocchia. La Lega ha in animo di usare le fondazioni per riportare il dominio della politica centralizzata sulle banche.

Venti anni dopo, insomma, si compirebbe il ciclo completo, con la Lega che prende vita urlando contro il centralismo e la spartizione e giunge, grazie alla forza acquisita a indirizzare le scelte dal centro, reclamando la propria fetta di potere. Né la cosa è nuova o deve stupire, perché quando la crisi economica ha mostrato il suo volto peggiore, quando il governo s’è mosso per salvare i posti di lavoro, utilizzando la cassa integrazione in deroga, ha anche pensato di disciplinare i flussi del credito, quindi della linfa che avrebbe dovuto tenere in vita le imprese pericolanti, mediante l’uso dei prefetti, ovvero di quella istituzione che incarnava il centralismo giolittiano. Noi scrivemmo che non avrebbe funzionato, e non ha funzionato, ma la Lega non gridò allo scandalo perché, pragmaticamente, era interessata al risultato. La gente ce lo chiede, sostiene Bossi, e noi intendiamo mettere i nostri uomini a tutti i livelli delle banche. E, anche in questo caso, non troverà convincente opposizione nella sinistra, i cui banchieri si mettevano in fila davanti ai gazebo, per partecipare al rito sciocco e falso delle presunte primarie, ma, anzi, in quelli troverà una sponda, disposta a rimpallare qualsiasi cosa, pur di non essere abbattuta.

Tutto questo può appassionare, e già vedo diffondersi i tabelloni di gioco, con immaginari risiko bancari in cui tutti credono d’essere i più scaltri, così come si diffondono i risiko istituzionali, in cui ciascuno assembla il proprio modello, copiando in giro per il mondo quello che gli pare, ma, in tutti e due i casi, rischiamo di avere prodotto ingestibili, vetture con tre motori, perché un amico li vende, e neanche una ruota, animali misti che sommano difetti anziché pregi, ritrovandosi con le branchie in alta montagna. Un sistema creditizio che funziona serve a portare il credito, i quattrini, verso le imprese che sanno farlo fruttare, così aumentando la ricchezza, alimentando consumi e risparmi, quindi accrescendo il monte del credito stesso, che riparte per creare altra ricchezza. Se, al contrario, le banche prestano i soldi agli amici, ai compaesani, o a quelli cui già ne prestarono troppi, quindi preferiscono tenerli in vita, pur essendo bolliti, per non ammettere l’errore e iscrivere il buco a bilancio, va a finire che il sistema produce miseria, sebbene alloggiata nel lusso.

Dobbiamo stare molto attenti, nel momento in cui giungiamo davanti alla sfida del cambiamento e delle riforme, a non innamorarci dei nostri difetti, scambiandoli per pregevoli particolarità. E’ vero, e l’ho scritto ripetutamente: l’enormità del debito pubblico ci ha preservato dall’errore di gettare denaro pubblico nella fornace della crisi finanziaria. Ma questo non significa che il debito pubblico sia una bella cosa. Ed è vero: la scarsa apertura al mercato ha consentito alle nostre banche di ridurre i danni della crisi globale. Ma ciò non vuol dire che il provincialismo spartitorio sia una bella cosa. Dobbiamo ragionare come se fosse possibile rendere migliore l’Italia, non ammettendo che la rassegnazione sia l’unica forma di realismo. Dobbiamo sperare, insomma, che le imprese e i cittadini chiedano banche serie, sane e funzionanti, al servizio di un Paese che ha una capacità di risparmio altrove sconosciuta. Gli unici banchieri amici, per la collettività, sono i banchieri veri.

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