Politica

Battisti, la pedina

Cesare Battisti è un assassino. Prima ha trovato ospitalità in Francia, quando una manata di terroristi italiani furono considerati al pari dei martiri. Poi, però, i francesi lo usarono contro di noi, dislocandolo in Brasile nel mentre erano in corso gare per forniture militari. Ora lo condannano perché ha falsificato i timbri sul passaporto. Rispetto al resto, è un peccato veniale. Ma per i brasiliani è un problema, giacché ripropone la domanda: che ci fa un così nel nostro Paese?

E’ una storia con molti aspetti istruttivi. I francesi accolsero una comunità di nostri pretesi rivoluzionari (rigorosamente comunisti), considerandoli vittime di persecuzione giudiziaria. C’era del vero, in quel loro pregiudizio, perché la legislazione emergenziale si prestava a più di un rilievo liberticida. Attaccata dal terrorismo, a sua volta sostenuto dai servizi segreti dell’est comunista, l’Italia non poté portare la guerra sul piano strettamente militare, perché questo avrebbe creato problemi internazionali in epoca di guerra fredda, ma neanche stravolse le proprie regole interne fino a cancellare i diritti dei cittadini. Con il senno di poi, ce la cavammo bene, considerato il calibro e gli intenti dei nemici. Resta, comunque, che in quell’epoca (siamo alla metà degli anni 70), il legislatore, quindi la politica, decise di delegare alla magistratura il compito di “combattere” quella guerra. L’arma fu il reato di “banda armata”. In linea di principio, quindi, i francesi non avevano tutti i torti. Non nel caso di Battisti, però, che è un assassino che ha ucciso nel corso di una rapina. Per lui non ci sono scuse che tengono ed è intollerabile quel che i francesi hanno fatto.

Da qui, però, si trae una prima lezione: fu la politica a trasformare la magistratura in organo “combattente”, reiterando la scelta anche per quel che riguarda la mafia, salvo poi accorgersi di avere creato un mostro, ovvero un corpo separato e autoreferenziale, capace di combattere anche la politica.

La giustizia francese, ad un certo punto, cominciò a soffrire per la protezione offerta a Battisti. Non era un rifugiato e un perseguitato, ma un omicida. Fu arrestato, a Parigi, e prima che i giudici di quel Paese ne consentissero l’estradizione in Italia fu aiutato a espatriare. Qui si apre un capitolo diverso: perché scelse il Brasile, dove si rifugiavano, semmai, i criminali fascisti? Si può rispondere che al potere c’era Lula, un compagno. Ma è deboluccia. Ho sempre pensato che a scegliere il Brasile non fu lui, ma i francesi che lo aiutavano. E fu scelto perché in quel momento era aperta una sfida commerciale assai importante, fra italiani e francesi, per la fornitura di navi alla marina militare di quel Paese. Gettarci fra i piedi un motivo di aperto conflitto fu sleale, ma vincente. Le autorità italiane abboccarono al volo, cominciando a rilasciare dichiarazioni ostili nei confronti dei brasiliani, ove non ce lo avessero restituito subito. Intervenne, in tal senso, anche il presidente della Repubblica. Risultato: non ce lo restituirono, fummo umiliati e perdemmo la gara. Un capolavoro autodistruttivo.

Seconda lezione: al contrario di altri paesi l’Italia non si comporta come un sistema capace di difendere i propri interessi, ma quasi gode a fregare interessi interni usando sponde esterne. Di quella fornitura militare i francesi andavano fieri, noi ci vergognavamo a parlarne. Sugli F35 non è molto diverso.

Terminata la partita, resta Battisti in Brasile. Aveva timbri falsi? Non mi è mai capitato d’immaginarmi latitante internazionale, ma credo che, se lo fossi, avrei qualche difficoltà a falsificare dei timbri. Per farlo Battisti fu aiutato, giunse in quel Paese con una rete già pronta. Quell’assassino non è un frescone qualsiasi, è una pedina ripetutamente utilizzata contro l’Italia.

E ora? Ora la mia opinione è ben poco accalorata: sono problemi dei brasiliani. Se decidono di tenerselo se lo meritano. Se decidono di buttarlo fuori lo restituiscono a chi glielo ha dato: alla Francia. C’è una condanna da scontare nelle nostre galere, ma è troppo facile restituire a noi il limone, dopo che è stato spremuto. Se ne lecchino la scorza. Piuttosto siano le nostre autorità a non perdere l’occasione per far rimarcare, nel silenzio della comunicazione pubblica e nell’efficacia di quella diretta, quanto questo gioco sporco ora ha bisogno che non si sia noi a insistere. Ragionare d’interessi può non sembrare nobile, ma assai più interessante che ragionare di quell’individuo.

Pubblicato da Il Tempo

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