Una serie di riflessioni sulla prima legge di bilancio redatta da un governo di destra: alcune promesse mantenute, altre meno. C’è prudenza, si vede meno la prospettiva.
La legge di bilancio non è il collage di tanti provvedimenti diversi, valutabili separatamente. Se viene scritta in quel modo a predisporla è un cattivo governante. Se viene modificata con quello spirito a emendarla è un cattivo legislatore. Se viene esposta e valutata in quella chiave a farlo è un cattivo giornalismo. Se ne può discutere questo o quell’aspetto, ma va prima di tutto considerata nel suo significato unitario. Se c’è.
Nella prima legge di bilancio redatta da un governo di destra si è escluso di sfondare i conti e iscrivere a debito il costo di tutte le promesse elettorali. Ed è positivo. A promettere più spese, più deficit e più debito erano stati Lega e Forza Italia, mentre Fratelli d’Italia aveva tirato il freno e promesso responsabilità. Che l’argine tenga è un bene. Eppure il deficit, rispetto ai conti del governo Draghi, passa dal 3,9 al 4,5% del Prodotto interno lordo, il che non ha destato reazioni e lo spread è rimasto basso. L’aumento non deriva (tanto) da decisioni politiche, ma dal maggiore costo del debito. Quando si dice che questo o quel titolo del debito è andato “a ruba”, ci si dimentica di aggiungere che pagano bene, aumentando la spesa. Se il mercato non reagisce ruvidamente, dando l’aumento per scontato, non significa che si possa dimenticare che quel costo crescerà ancora, togliendo margine ad altre spese.
Sarebbe stato un incrocio fra sciocchezza e presunzione supporre che il nuovo governo potesse dare subito corpo alle promesse elettorali. Anche solo quelle (vaghe) condivise dall’intera coalizione di destra. Chi per questo li critica gareggia in demagogia. Quel che conta è capire se il governo descriva un percorso chiaro e pluriennale, rendendo coerenti i primi passi. E qui le cose si fanno nebbiose, perché avere scelto di puntare su mozziconi di promesse – dal fisco alle pensioni – senza spiegare come possano mai essere interamente compatibili con la stabilità finanziaria fa sì che non si capisca dove intendano andare a parare, tanto meno poterne valutare la coerenza.
Prendiamo il Reddito di cittadinanza: la destra ha detto chiaramente di volerlo cancellare (anche se una delle componenti, la Lega, contribuì a crearlo). Mettiamo pure che “cancellare” diventi “modificare”: chi è in grado di lavorare ci vada. Basta un rifiuto per perdere il beneficio. Bene. Ci sono, però, percettori che non hanno mai rifiutato nulla, ma ai quali neanche nessuno ha mai proposto alcunché. Allora non basta tagliare l’esborso, perché quella non è una riforma, un cambiamento, semmai dovrebbe esserne la conseguenza. Ad esempio: integrazione fra uffici del lavoro e agenzie private, con banca dati nazionale sia di domanda e offerta che di assistenza. Non è un problema dire che ci vuole tempo, lo è non dire dove si voglia arrivare.
L’elevazione della soglia entro la quale un autonomo può utilizzare un regime forfettario (che non è manco per niente una flat tax) non significa nulla e riguarda una percentuale minima di contribuenti. Il problema non è la ridotta portata, ma il non sapere cos’altro significhi se non dare “un segnale”. Manca lo sfondo di una riforma fiscale documentata. Tassare le multinazionali unisce in coro la destra e la sinistra ideologiche, ma significa poco. O, meglio, per quel che significa ci lavora la Commissione europea. Se tassi le consegne a domicilio, però, tassi i clienti. E se detassi l’Iva per quattro centesimi a ogni euro per pane e pasta, non se ne accorge il cliente ma il maggiore incasso del venditore. Se rimangono intenzioni, sono pure segnali equivoci.
C’è la prudenza. Si vede meno la prospettiva. In ultimo: la legge dovrà essere approvata entro il 31 dicembre e l’esame parlamentare sarà compresso. Di questo la destra si lamentò spesso. Ora che si trova a fare quel che detestò, perché non c’è alternativa, potrebbe usare l’inconveniente per ragionare, con l’opposizione, sulla riforma di quel procedimento. Anche ipotizzando la non emendabilità, cui si lega la caduta del governo nel caso di bocciatura.
Davide Giacalone, 22 novembre 2022