Il bipolarismo italiano, quello sperimentato a partire dal 1994 non è figlio dei referendum Segni. Il bipolarismo italiano è figlio della scelta fatta da Silvio Berlusconi di avere un ruolo politico.
Senza quella scelta, senza quell’imprevisto della storia, la sinistra avrebbe stravinto le elezioni del 1994 (anche perché senza avversario), si sarebbe ricreato un centro attorno alla corrente di sinistra della vecchia democrazia cristiana (la corrente risparmiata dai magistrati, in base all’idea che Gava e De Mita siano soggetti radicalmente e totalmente diversi), sarebbero stati eliminati, come in effetti furono, socialisti e laici, consentendo agli ex comunisti di essere determinanti anche senza restare tutti uniti. Le cose andarono diversamente. Fortunatamente, aggiungo.
Il bipolarismo italiano ruota attorno a Berlusconi, e per chi avesse problemi a capirlo consiglio di non ascoltare più quest’ultimo e di dedicarsi all’ascolto esclusivo degli unionisti: non solo non parlano d’altro che di Berlusconi, ma se questi non ci fosse le differenze programmatiche ed ideologiche diverrebbero incontenibili all’interno di quell’alleanza.
Fin qui il passato-presente. Ora che succede? Succede che la legge elettorale attuale, il Mattarellum, è una legge uninominale, ma non maggioritaria, o, per meglio dire, è maggioritaria solo in quanto uninominale. La nuova legge elettorale, quella già approvata dalla Camera dei Deputati, invece, è maggioritaria. Solo la superficialità ed il pressappochismo possono far dire il contrario: è una legge maggioritaria, capace di consegnare la maggioranza assoluta dei seggi anche a chi ha solo la maggioranza relativa, pur prevedendo una ripartizione proporzionale dei seggi all’interno delle coalizioni. La nuova legge, insomma, aumenta il vincolo d’appartenenza di ciascun parlamentare ad una coalizione. Vero è che rimane il dettato costituzionale e che, quindi, non c’è vincolo di mandato per il parlamentare, ma ora, quel dettato, sarà integrato da una clausola anti ribaltone, e, comunque, si determinerà una realtà per la quale un singolo parlamentare potrebbe essere il frutto di un premio di maggioranza e, pertanto, stona non poco che vada a far maggioranza di governo con altri.
Ciò significa che, chiunque e comunque vinca le prossime elezioni, avrà una maggioranza con la quale governare (l’unica possibile eccezione sarebbero due maggioranze diverse nelle due Camere), e da ciò deriverà che, qualora, nel corso della legislatura, quella maggioranza venisse meno si dovrebbe tornare a votare.
In questo quadro si tratta di collocare e schierare i riformisti. Riformisti sono stati i repubblicani, i liberali, i socialdemocratici, parte della democrazia cristiana e parte del partito socialista, specie quello di scuola autonomista e craxiana (il tentativo di rendere riformista la sinistra fu fatto solo da Ugo La Malfa, sul piano della maieutica, e da Craxi, sul terreno dello scontro politico ed elettorale). Fra i riformisti non solo possono esserci, ma sicuramente ci sono state e ci sono idee diverse, ma nessun dubbio circa il fatto che la società non va né conservata né rivoluzionata, ma riformata, con pazienza, gradualismo, e senza mai cadere nell’incubo del sistema perfetto. Questo mondo riformista è stato minoranza, e lo è ancora. Ha esercitato un ruolo di grande positività nei migliori anni del centrismo e del centro sinistra, così come negli anni del pentapartito che portò allo schieramento degli euromissili. Ora i riformisti sono divisi (lo sono sempre stati), presenti nei due schieramenti contrapposti. E qui vale la pena di dire una cosa chiara.
Se c’è un posto dove i riformisti non devono stare è nelle riserve faunistiche e nelle aree protette. Non s’addice alla loro natura la testimonianza, mentre la milizia nelle piccole case che recano il nome delle grandi tradizioni è fine misera. Essi dovrebbero, oggi, guardare con più orgoglio e più coraggio ai processi, in corso da una parte e dall’altra, che conducono verso raggruppamenti vasti ed eterogenei, verso quel Partito Democratico che renderebbe migliore la sinistra e quel Partito Riformista (Riformista è mio, in realtà lo chiamano “dei Moderati”) che renderebbe più efficace il centro destra.
So di scrivere una cosa che dispiace a molti, ma io vorrei che i riformisti vincessero la loro battaglia nel centro sinistra, affrancandolo dal giustizialismo e dai cascami ideologici di chi ha ancora in mano dollari sovietici, allontanandolo dall’idea spocchiosa ed insopportabile d’essere depositario d’un’irragionevole superiorità morale. E vorrei la vincessero nel centro destra, sottraendolo ad un confesionalismo fuori dalla storia, correggendo una tendenza alla dilatazione della spesa pubblica, che dispettosamente sopravvive alla riaffermazione di principi liberisti. Vorrei vincessero, da una parte e dall’altra, battendo le resistenze corporative e le viscosità lobbistiche che ancora soffocano il mercato e non favoriscono certo la ripresa dello sviluppo. Queste due battaglie, eguali e diverse, devono essere combattute sul terreno della politica e senza accender lumini alla tradizione ed ai laici santini. Le piccole case sono il rifugio di chi dà per persa la partita, mentre gli agglomerati che si prospettano sono il campo di battaglia.
Il passato non torna (e non è un male) mentre il bipolarismo ruotante attorno ad un solo perno provoca perdite d’orientameto. Porre il tema del terzo polo non è oggi realistico, e, comunque, andava fatto alle elezioni europee. Ci si getti dunque nella politica delle idee e delle proposte, se non si vuol perdere l’anima, oltre che la partita.