Politica

Brutto avviso

L’avviso di garanzia a Carlo Buora e Marco Tronchetti Provera è una brutta storia. Non tanto per gli indagati, che pure non ne avranno goduto, ma per la giustizia, per quell’intreccio di pressioni e interessi che si è sviluppato nella e sulla procura della Repubblica di Milano.
Gli indagati, per i quali vale la presunzione d’innocenza, non hanno molto da temere, perché i fatti cui si riferiscono le ipotesi d’accusa sono già vecchi di anni e le indagini sono ancora in corso (la procura ha appena chiesto sei mesi di proroga), quindi non si chiuderanno prima del 2011. Per l’udienza preliminare, se ci sarà, ci vorrà, ad essere ottimisti, un altro anno, quindi, ove sia disposto, il processo potrebbe cominciare nel 2013. Basta una derubricazione o un’attenuante per mandare tutto in prescrizione. Fine della storia e fine dei pericoli, per i coinvolti. Sono gli inquirenti, invece, a doversi preoccupare. Perché in tutte queste vicende di Telecon Italia, dagli spioni alla consultazione non autorizzata dei tabulati, le cose sono due, come abbiamo tante volte scritto: o i vertici aziendali erano consapevoli di quel che stava accadendo, magari anche solo lasciando correre, nella speranza che i servitori portassero loro qualche succosa notizia, o erano degli incapaci, che non si sono accorti di niente. Ho stima della loro intelligenza, quindi non mi piace la seconda ipotesi, oltre tutto smentita dalla loro orgogliosa rivendicazione di essere stati gli artefici delle denunce alla magistratura. Resta la prima, che può essere declinata in sede penale (cosa che non compete a noi fare), oppure restare al livello societario, con la responsabilità di avere assunto e pagato gente che ha portato Telecom fuori dai binari del diritto. Di questo scrivemmo a lungo, ma sempre in via ipotetica perché i due uomini alla guida dell’azienda non erano neanche indagati. Ora lo sono, ma attenti al trabocchetto.
La procura di Milano ha sempre creduto alla loro versione dei fatti. Sulla parola, in un certo senso. I protagonisti di quella storiaccia raccontavano ai giornali di avere sempre agito su mandato diretto dei vertici, facendo esempi concreti di spionaggi nel loro interesse, ma la procura non faceva partire l’avviso di garanzia. Neanche per “atto dovuto”, come si dice in modo ipocrita, quando si vuol intendere che non si poteva proprio evitarlo. Al punto da farsela cantare, per il tramite delle carte giudiziarie, sia dal giudice delle indagini preliminari (due volte) che da quello dell’udienza preliminare (che scrivendo le motivazioni di patteggiamenti è come se avesse condannato chi non era neanche indagato). Siamo arrivati al punto, sul quale il sistema dell’informazione ha messo la sordina, che la procura ha chiesto di distruggere tutti i dossier raccolti dagli spioni (grazie ad una legge voluta dal governo Prodi, votata praticamente all’unanimità e contro cui nessuno ha protestato, sentendosi imbavagliato) e il giudice ha fatto notare che gli inquirenti non li avevano neanche letti tutti. Alcuni, però, erano giunti alla stampa, sicché il Corriere della Sera poté pubblicare la sensazionale notizia che sono parente di Bernardo Provenzano (il mafioso, per chi non fosse del ramo) e riciclo i suoi soldi, invece mi tocca lavorare per campare e non ho disonorati in famiglia, avendo il solo torto di star scrivendo un libro, nel quale ho raccontato, mai smentito, gli intrallazzi di Telecom.
Nel mentre i procuratori di Milano lavoravano, seguendo un indirizzo che non è piaciuto ai due giudici competenti, quella di Roma aveva avviato indagini sul sistema Radar, che consentiva di consultare i tabulati senza lasciare tracce. La cosa è passata, per competenza, a Milano, ma non coincide, non si sovrappone, semmai si affianca a quella sugli spioni. I milanesi, dunque, hanno tenuto a marinare questa seconda inchiesta, dalla quale germogliano ora gli avvisi di garanzia. A pensar male, insomma, è come se si fossero messi nelle condizioni di poter poi dire: vedete, malfidati, qualche cosa la stiamo pur facendo.
Per questo torno dove avevo lasciato i lettori, l’ultima volta: la giustizia non si può farsela in casa, né amministrarla al bar, ciascuno a proprio piacimento, Buora e Tronchetti Provera non erano indagati e ora che lo sono non per questo è minimamente intaccata la loro presunzione d’innocenza, si difenderanno e, come avete capito, credo che la cosa finirà nel nulla. Il problema grosso sta dall’altra parte della scrivania e riguarda l’indipendenza, il sistema di lavoro, le capacità e i tempi con cui si muovono gli uomini al servizio della giustizia. Quando quel mondo non funziona, e da noi s’è incriccato (in tutti i sensi), il resto della società s’infetta, perdendosi la bussola dei torti e delle ragioni.

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