Politica

Calipari, l’impossibile processo

Lo abbiamo scritto nel pieno delle polemiche provocate da quel maledetto 4 marzo 2005, quando Nicola Calipari morì, a Bagdad, ucciso dal fuoco statunitense. Lo abbiamo ripetuto quando, nel febbraio scorso, il giudice dell’udienza preliminare rinviò a giudizio il soldato statunitense che stava dietro la mitragliatrice. Era ed è chiaro che quel processo non si può e non si deve fare, per ragioni di diritto e per ragioni politiche. Non è giusto e non ci conviene farlo.
In termini di diritto la corte d’assise di Roma è stata chiara: non c’è competenza, c’è un difetto di giurisdizione. Quel soldato operava in Iraq, in missione all’estero, e rispondeva agli ordini del suo comando. Il morto era italiano, anch’egli all’estero, anch’egli in missione, anch’egli rispondeva a degli ordini. O, fra alleati, si stabilisce la necessità di una giurisdizione condivisa, oppure quel soldato può rispondere solo di essere venuto meno al suo dovere, quindi negli Stati Uniti. Siccome così non è, non risponde di niente da nessuna parte. Punto.
Ma il diritto non deve coprire la vera questione, che è politica: Calipari era in missione segreta, perché noi non potevamo dire esplicitamente che stavamo pagando il nemico per avere indietro una giornalista che se ne stava lì a glorificare chi la rapiva ed attaccare chi la liberava. Quel servitore dello Stato ha dovuto lavorare in una zona grigia, pericolosa, non potendo contare sulla solidarietà degli alleati. Neanche era nel conto la loro aggressione, ma quella notte le cose andarono così, ed è da stupidi pensare che possa esserci una responsabilità specifica e personale del militare che ha premuto il grilletto.
La responsabilità di quel che è accaduto è politica, e ricade su tutti quelli che hanno condiviso l’idea che i nostri servizi segreti svolgessero quel tipo di attività. Cioè quasi tutti. Esclusi solo noi e pochi altri, che ragionando coerentemente non abbiamo avuto difficoltà a vedere prima come sarebbe finita.

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