Ogni volta ci si attende il cambiamento. Non si sa esattamente cosa sia, non di meno è stato promesso durante le campagne elettorali. Ma governare significa fare i conti con la realtà, mentre la propaganda resta una zavorra. Significa anche, però, attivare meccanismi che cambino la realtà, migliorandola. Vediamo le due facce della medaglia, con un riferimento al Documento di economia e finanza e ai contratti nel pubblico impiego.
La giostra delle nomine s’è fermata. Guardando le foto dei nominati non capita di chiedersi: chi è? Nella grandissima parte sono persone (di valore) che hanno già ricoperto ruoli analoghi, se non i medesimi, nominati da altri governi. Chi temeva sommovimenti si tranquillizzi, chi li auspicava si rassegni.
Le promesse relative alle agevolazioni pensionistiche (con relativa campagna contro la legge Fornero, che sarebbe stata cancellata prima di subito) restano tali. Ammesso si proceda, lo si farà con estrema lentezza. All’inizio del 2023 avevamo già 17.7 milioni di assegni pensionistici, il 17.4% pagati a chi ha meno di 64 anni. I regali abbondarono, mentre i soldi scarseggiano. Idem per il fisco: qualche ritocco, giusto per dire d’averlo fatto, ma anche qui mancano i soldi. La flat tax resta sullo sfondo, ma il suo destino è di finire a fondo. Sono condizioni oggettive, chi oggi governa può essere rimproverato di avere promesso cose diverse, ma non di non realizzare promesse impossibili. Tutto questo non significa non si possa fare nulla.
Alcuni contratti del pubblico impiego sono scaduti nel 2021 (dirigenti e Palazzo Chigi), l’intero comparto deve essere rinnovato per il 2022/2024. E siamo già nel mezzo. Se si dovesse adeguare tutto all’inflazione maturata (misurata dall’Ipca, indice dei prezzi al consumo armonizzato), già solo questo costerebbe 32 miliardi: 18 a carico del bilancio statale e 14 di regioni, comuni, province e sanità. Non solo non ci sono, ma si tratta dell’1.6% del prodotto interno lordo, una misura enorme. Il governo sostiene che recupererà parte dei soldi mediante una razionalizzazione della spesa, ma le promesse di spending review (per i vari governi) hanno l’affidabilità degli oroscopi: ci crede solo chi ci vuole fortemente credere. Di spesa improduttiva da tagliare ce n’è tanta, ma occorre conoscenza, determinazione e tempo. Chi ha avuto o ha l’una cosa manca delle altre.
Ragionando, però, non si vede perché un impiegato debba aspirare “solo” a riprendersi l’inflazione e non debba puntare a guadagnare assai di più. Qui s’incrociano le possibilità di cambiare, veramente e profondamente. Per farlo occorre non invocare generici cambiamenti, bensì cambiare le menti, il modo di ragionare.
Una parte imponente dei fondi del Pnrr (quasi il 30%) è destinata alla digitalizzazione. Se si ritiene siano chiacchiere e non opportunità, chiudiamo la discussione e arrendiamoci alla miseria morale e materiale. Ma se si punta alle realizzazioni, possibilissime, allora la digitalizzazione e la larga banda cambieranno i servizi offerti al cittadino dalla pubblica amministrazione, cambiando il lavoro e le capacità di chi è impiegato. Invece di rinnovare i contratti a pioggia, con il risultato di non premiare mai il merito ed equipararlo alla nullafacenza, si punti a tre cose: a. la dirigenza (a partire dal ministro) sia responsabile di individuare e documentare obiettivi ambiziosi e raggiungibili; b. si predispongano sistemi continui e trasparenti di misurazione (ne esistono diversi e affidabili); c. si commisuri lo stipendio al merito.
Anziché lamentare i bassi salari, che sono lo specchio della bassa produttività e della bassa crescita, il sindacato chieda di compartecipare alla misurazione della qualità. Sembra aziendalismo, ma innesca una rivoluzione. Vale per ogni settore e sarebbe oro nella scuola (dove più ne stabilizzi, più crescono i precari e meno si fa caso al servizio reso agli studenti).
Sempre che per cambiamento non s’intenda volere ogni volta cambiare chi fa promesse che poi non manterrà.
Davide Giacalone, La Ragione 14 aprile 2023