Le elezioni regionali, del prossimo marzo, appassionano i partiti assai più degli elettori. Per questi ultimi non sono chiare neanche le competenze e le funzioni degli eligendi, ma sanno con certezza che i candidati si faranno sentire, in maniera asfissiante, fino al giorno in cui tenteranno di riscuotere il voto, dopo di che: arrivederci e grazie. Per i partiti, invece, la sfida è decisiva, per due ragioni: a. la scelta dei candidati alle presidenze segna il barometro dei poteri interni alle coalizioni; b. mentre la conquista effettiva delle presidenze determina lo spostamento di potere economico. In questo scenario si segnala una novità: l’Udc di Pier Ferdinando Casini. Erano spariti, dalla nascita della seconda Repubblica, quanti affermavano esplicitamente di allearsi con chi conviene, senza scelte pregiudiziali. Transfughi e saltafossi non sono mai diminuiti, ma aumentati. Incapaci, però, di teorizzare lo sport cui si dedicano.
Casini no, lo teorizza. E non ha torto, perché sostiene: abbiamo scelto di porci contro il bipolarismo, e mentre sia la sinistra che la destra stanno al governo una legislatura (magari breve) a testa, noi siamo all’opposizione da due, ora abbiamo una posizione vantaggiosa, scegliendo con chi allearci, regione per regione, possiamo determinare il risultato, quindi, non rompete l’anima e fatemi incassare. Per non lasciare equivoci, ha parlato di “golden share”. Fila, non ha torto. Fila meno, invece, quando afferma che, comunque, non intende allearsi, “mai”, né con i leghisti né con i comunisti di rifondazione. Anzi, non fila affatto.
Con i leghisti è stato alleato per tre legislature, e con i loro voti ha fatto anche il presidente della Camera. Che cosa è cambiato? Come tutti quelli che fanno dell’antileghismo facile, Casini può invocare il linguaggio rude e la politica federalista, talora spinta al secessionismo. Ma, anche in questo caso, i conti non tornano, perché la peggiore riforma scassastato e sacassacostituzione la fecero quelli di sinistra, nel 2001, mentre gli alleati della Lega, con i voti di Bossi e quelli di Casini, cercarono di porre rimedio, reintroducendo il principio dell’interesse nazionale. Naturalmente, non solo è lecito, ma (penso) talora doveroso dissentire dalla Lega, solo che si ha il dovere di dire su che, in qual senso e con quali alternative, altrimenti siamo al dimenarsi propagandistico.
Sull’altro fronte, perché si dovrebbe escludere, totalmente e per principio, l’alleanza con quel che sopravvive di Rifondazione Comunista, nel momento in cui ci si allea con un partito il cui gruppo dirigente fu tutto comunista, senza che abbia mai abiurato quell’orrendo passato? Non voterei Nichi Vendola, ma mi sfugge cosa giustifichi un rifiuto di principio, o, almeno, mi sfugge cosa lo renderebbe abissalmente diverso da Michele Emiliano.
Nelle parole di Casini, purtroppo, manca l’unica pregiudiziale utile e sensata, quella contro l’Italia dei Valori. Ciascuno può pensarla come gli pare, ma sappiamo tutti che quello è il vero estremismo oggi in campo. Quelli sono gli avversari del riformismo, gli antitetici al moderatismo. Non solo, sono anche i principali profittatori di un bipolarismo guasto, quindi i suoi più strenui difensori. Non a caso, maledicono ogni ipotesi di confronto parlamentare. Casini non prende le distanze da Di Pietro perché sa bene, visto che i suoi voti sono radicati al sud, che l’ex acquirente di mercedes scontate non è un residuato ideologico o una sopravvivenza apparente, ma un fenomeno politico reale. Ripugnante, a mio avviso, ma reale.
Solo che, in questo modo, si crea un problema politico insuperabile: il pendolarismo delle alleanze è fisiologico, nelle democrazie (si pensi ai liberali tedeschi), e dove i sistemi elettorali sono proporzionali (il nostro ancora lo è), l’elettorato di centro, solitamente determiante, non cambia direttamente fronte, ma si fa rappresentare da partiti che cambiano fronte per suo conto. Nulla di strano o disdicevole. Ma quando il pendolarismo si esercita, quando il profitto lo si accumula, quando la “golden share” s’incassa, senza tenere conto né delle questioni di principio né degli avversari reali di quell’elettorato di centro, allora il fenomeno cambia nome, e si definisce: trasformismo. Fenomeno non nuovo, nella storia italiana, ma anche notoriamente nocivo