Nelle settimane che accompagnano l’agonia della legislatura, nel mentre si contano le teste dei parlamentari, per valutare la consistenza degli schieramenti, è capitato che la maggioranza si sia allargata anziché ristretta. Sulla riforma universitaria ai voti della maggioranza si sono aggiunti quelli dell’Alleanza per l’Italia, che fa capo a Francesco Rutelli, e quelli della Südtiroler Volkspartei. Il fatto non è stato casuale, sebbene subito riassorbito da una politica urlata e non ragionata, tanto è vero che la sinistra ha accusato Rutelli di usare parole dolci verso la riforma universitaria al solo scopo di prepararsi alla confluenza con il governo.
Il caso dell’università, però, riserva ulteriori preziosità, compreso il fatto che il ministro in carica, Mariastella Gelmini, aveva manifestato il proprio consenso ad un emendamento presentato da senatori del Partito Democratico, mirante ad abbassare significativamente l’età della pensione, per i professori: da 72 a 65, per tutti. Alla fine è stata votata una misura più contenuta: da 72 a 70 per gli ordinali, e a 68 per gli associati. La domanda è: perché?
Perché l’età pensionabile dei lavoratori andrebbe elevata, ma quella dei professori universitari abbassata? Perché la vita lavorativa di ciascuno di noi andrebbe allungata e quella dei professori universitari, invece, accorciata? La contraddizione è eclatante. Le sue ragioni inaccettabili. Il pensionamento anticipato dei cattedratici dovrebbe servire, secondo le buone (e assai ingenue) intenzioni, a migliorare la qualità degli insegnanti, ma non sta scritto da nessuna parte che le cose andrebbero in questo modo, e potrebbero anche peggiorare.
L’età pensionabile di tutti deve salire (come già previsto dalla legge, del resto) per diminuire il peso dei pensionati sul reddito dei lavoratori, tenendo conto che la vita s’allunga. Perché non vale per i professori? Risposta (nobile): perché l’età media dei professori italiani è penosamente alta, mentre la loro qualità non meno penosamente mediocre, quindi prima se ne vanno e prima entrano i giovani e i capaci. La realtà (ignobile) è diversa: è vero che le cattedre si sono riempite di clientele e familiari, ed è vero che certi professori hanno evidenti problemi con l’idioma nazionale, ma ce ne sono anche di capaci e seri, talché il criterio dell’età è detestabile per far carriera, ma lo è anche per stroncarla e, del resto, non sta scritto da nessuna parte che le nuove leve, formate dagli uscenti, si distinguano altro che per una maggiore vitalità cellulare, non necessariamente celebrale.
A ciò s’aggiunga che quel che vale per tutti i lavoratori vale anche per i professori, ovvero che tanto più corta è la vita lavorativa tanto maggiore il costo (per gli altri) della loro pensione. Quindi, mandare via i professori canuti non assicura migliore qualità, ma garantisce peggiore equilibrio finanziario dell’Inpdap (ente che ne gestisce le pensioni). Ed è per questo che l’idillio fra i senatori della sinistra e quelli della destra è stato fermato: perché i conti non tornavano.
Eppure, lamentano i proponenti, è l’unica via d’uscita da un’università colma di anziani non eccellenti. Quelli che una volta si definivano “baroni”, quando ancora aveva un senso parlare di “scuole”, mentre oggi sono forse feudatari, interessati più alla gabella che alla dottrina. Il fatto è che mettere al loro posto giovani di pari o minore qualità non è un gran passo in avanti. E allora? Allora stiamo ragionando di un sistema malato, dove è inutile lavorare sui sintomi, si deve curare il male. Il quesito rilevante è: ha senso pensare che quella del professore universitario sia una professione, che si fa per l’intera vita, a prescindere dai risultati, e che si conclude per anzianità? No, non ha alcun senso. Quasi tutti i professori universitari che conosco fanno altri lavori nella vita, e quelli che non li fanno vuol dire che sono ricchi di famiglia o svogliati alla nascita. I professori di diritto fanno gli avvocati, quelli di medicina i medici, quelli d’economia hanno studi professionali e così via. Nel lavoro sanno di doversi misurare con la concorrenza, perché un cliente non è pago d’essere difeso da un professore, salvo poi andare all’ergastolo, od operato da un cattedratico, salvo poi rimetterci la pelle. Quando insegnano, invece, devono misurarsi solo con l’anagrafe. Non ha senso.
In un sistema sano in cattedra si sale, ma dalla cattedra si può anche scendere. Si può farlo in fretta e non solo perché non si è capaci d’insegnare, ma anche perché nessuno chiede d’imparare. I corsi universitari per pochi adepti non sono l’apoteosi della cultura, ma l’empireo della spesa improduttiva. E se vale la qualità, dalla quale dipende la fama, da cui discende la capacità di quel determinato corso di attrarre studenti, tanto che dallo sfavillio dei risultati si possano far derivare più salate rette pagate dalle famiglie, come la voglia di finanziare le borse di studio, state sicuri che nessuno si tiene un vecchio brocco o mette alla porta un giovane fuoriclasse (e viceversa). Il che presuppone università libere, in concorrenza fra di loro, intente ad accaparrarsi i migliori e senza valore legale del titolo di studio, per la gioia della cultura e la ricchezza del mercato.
L’età e il sesso dei professori è l’ultimo problema. Forse per questo appassiona tanti.