Politica

C’è chi da i numeri

Nicola Mancino, politico di vasta ed antica esperienza, oggi vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, parlando davanti al ministro della giustizia, Angiolino Alfano, ha assicurato che “valuteremo le riforme con animo sereno”. Sembra una bella cosa, e forse lo è. Ma “noi” chi? Si riferiva, con ogni probabilità, al Csm stesso. Non ne sono del tutto sicuro perché non solo la Costituzione non assegna a quest’organo il compito di valutare ciò che viene discusso in Parlamento, ma risulta stonata anche solo l’idea che possa farlo, o lo abbia fatto, con animo agitato. E che un dubbio simile mi venga, a fronte di una frase che vuole essere distensiva e conciliante, la dice lunga sul deragliamento istituzionale da anni in corso.
Il ministro gli ha risposto gradendo l’approdo alla serenità, che non guasta mai. Ed ha aggiunto che ben comprende la difficoltà in cui vive la magistratura, che dispone di mezzi organizzativi ed economici limitati. Si stanno venendo incontro, insomma, tutto sta a vedere se dalla parte giusta. Perché noi cittadini italiani spendiamo, pro capite, quanto e più degli altri europei, per pagare la giustizia, ma ne ricaviamo la peggiore d’Europa (dato inconfutabile, ricavato dalle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo). Il punto, quindi, non è spendere di più, ma spendere meglio. Non è detto che la magistratura sia del tutto serena, a tal proposito, perché il nocciolo della questione sta nel fatto che l’autonomia dei magistrati, che è un sano ed imprescindibile principio costituzionale, quando si tratta di giudicare, è stata estesa anche all’amministrare una macchina in cui ciascuno fa un po’ come gli pare, sia dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro che degli investimenti in infrastrutture. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: pur lavorando tutti con le stesse leggi, ci sono distretti che si tengono nella media produttiva europea e altri che si fanno battere da quella africana.
Ben venga il “dialogo”, tante volte auspicato dal Presidente della Repubblica, anche se non ha torto Pierluigi Bersani quando afferma di non avere mai capito di cosa, esattamente, si tratta. Per dialogare, però, occorre parlare la stessa lingua. La realtà è una sola, ma mentre il ministro sostiene che solo l’1% dei processi sarebbe cancellato dalla riforma che ne contingenta i tempi, secondo l’Associazione Nazionale Magistrati si tratterebbe del 50%. Uno scarto eccessivo, per essere frutto di calcoli anche solo lontanamente simili. Ho l’impressione, a naso, che la prima percentuale sia troppo bassa e la seconda troppo alta, ma mica possiamo procedere come se fossimo al mercato. Il legislatore, del resto, presto dovrà votare, e non potrà affidarsi alle chiromanti.
Il fatto è che tutte le persone ragionevoli, e non pregiudizialmente schierate sugli spalti di questa o quella tifoseria, sanno bene che la giustizia ha bisogno di riforme vaste e profonde, che toccano mille aspetti del civile, del penale e dell’amministrativo. Ma ogni volta che se ne tira fuori uno solo si scatena un finimondo di polemiche, che, nella serenità, si placano solo pagando il prezzo dell’immobilismo, quindi della permanenza nella pessima condizione in cui ci troviamo. Magari concedendo l’inconcedibile sul terreno degli egoismi corporativi, ai magistrati ed agli avvocati. Peggiorando, se possibile, le cose.
Anche il Partito Democratico, per bocca del suo segretario, ha colto al balzo la palla della serenità e del confronto. Solo che ha aggiunto, rivolgendosi alla maggioranza: parliamo di riforme, ma non di quelle che avete proposto. Sarebbe più saggio dire: su quel che avete proposto non siamo d’accorso, pertanto, su quei temi, proponiamo le seguenti e diverse cose. Perché se il dialogo comincia con l’impegno a non parlare, come dire, è difficile che vada lontano.
Occorre, quindi, parlare di tutto e procedere in modo coerente, senza avanzare (o indietreggiare) a spizzichi e bocconi. Con il che, però, non nascondiamoci il tema più caldo: i processi che riguardano il presidente del Consiglio. Qui, a vociare, sono due categorie di persone, da anni: quelli che sono pronti a qualsiasi nefandezza, pur di vederlo condannato e cancellato dalla vita politica, e quelli che sono pronti a qualsiasi nefandezza, pur di vederlo liberato dai processi. I due fronti si sostengono a vicenda, ed entrambe contribuiscono allo sfascio della giustizia.
Sicché, serenamente, sarà il caso di dedicarsi alla giustizia come servizio ai cittadini, non a quella che favorisce i corporativismi o s’inquina di politicizzazione. E’ la volta buona? Speriamolo, ma crediamoci solo dopo averlo visto.

Condividi questo articolo