Politica

Chiarezza multilaterale

Ritiriamo i nostri soldati dal Libano, ha detto il ministro Roberto Calderoli, e mettiamoli a pattugliare le coste, in modo da proteggerci dall’invasione dei clandestini. Il pregio del suo argomentare è che non lascia margine ad equivoci. In questo caso, però, egli ha posto un problema che merita una riflessione non affrettata, non ritagliata solo sull’emergenza e neanche limitata al solo Libano. Potremmo metterla in questi termini: dopo quello che è successo (e sta succedendo) in Libia, ha ancora senso prendere parte a spedizioni multilaterali di pace?

A scanso d’equivoci, antepongo la risposta: sì, ha senso. Sono stato favorevole a quelle spedizioni e lo rimango. Sono, però, gli errori commessi dalla comunità internazionale in Libia a non rendere soddisfacente la risposta semplicemente affermativa, imponendo di scavare impietosamente fra le contraddizioni che si sono accumulate.

Partecipare ad una spedizione militare ha un costo, elevato. Sia in termini economici che umani. Le salme dei militari ricordano a tutti noi il debito verso chi è andato a difendere il tricolore. Gli stanziamenti necessari per mantenere al fronte le truppe, senza sguarnirle di mezzi e tecnologia, ricordano ai contribuenti, in un momento non certo facile, che quei soldi vengono spesi in nome di un interesse. Quale? Questo è il punto, visto che le parole zuccherose sulla pace da tutelare e i deboli da difendere lasciano il tempo che trovano: in troppi altri posti si lasciano i deboli al massacro e la guerra scorrere liberamente. La bontà non è merce corrente, sul tavolo della politica estera. Lì, semmai, devono muoversi gli interessi nazionali e le idealità che caratterizzano le democrazie, possibilmente coordinati fra di loro.

Siamo andati nei Balcani per significare che non è possibile perpetrare un genocidio alle porte d’Europa, e per rendere chiara l’influenza occidentale su quei territori. Siamo andati in Afghanistan perché le democrazie hanno reagito all’idea che l’islam fondamentalista potesse attaccare le nostre città senza pagare un durissimo prezzo nelle aree ove s’era insediato. Siamo andati in Irak perché un despota non può permettersi di minacciare esplicitamente l’esistenza d’Israele, autentico avamposto delle democrazie e dell’occidente, e per dimostrare che un diverso equilibrio istituzionale è possibile anche in quell’area del mondo. Ciò non significa colpire sempre tutti i genocidi, né tutti i fondamentalisti, né tutti i nemici d’Israele, ma significa affermare che, a buon diritto, li si può mandare in fretta all’altro mondo. Chiedo scusa se il linguaggio crudo irrita qualche delicatezza, ma in guerra (e queste sono guerre) si spara per ammazzare.

In ciascuna di queste partite, e in altre che si possono citare, ci sono stati pro e contro, come discussioni interne sull’opportunità o meno di far partire i nostri militari, ma è sempre stata chiara la coincidenza d’interessi fra quelli nostri nazionali e quelli degli altri componenti la forza multilaterale. L’avventura libica cambia lo scenario perché tale chiarezza è venuta meno.

Non si tratta di discutere l’opportunità di stecchire Muammar Gheddafi, che avrei volentieri visto saltar per aria già nel 1986, ma di osservare che in un Paese in cui gli interessi più esposti erano quelli italiani si è imposto il conflitto lasciando indietro l’Italia. Dopo di che, a parte la non efficiente gestione del conflitto stesso, e pur messa da parte la grave indeterminatezza dei comandi, nel momento in cui s’è sollevata l’onda dei clandestini, frammisti ad alcuni profughi (pochi), l’intera coalizione e l’intera Europa hanno sostenuto che tale problema è degli italiani. E, complice il pasticciare del nostro governo, che è stato esemplare nei soccorsi ma meno nell’invenzione dei permessi temporanei quale chiave per aprire le porte di Shengen (laddove era solare che non si sarebbe aperto un bel nulla), s’è anche fatto di tutto per rendere peggiori le condizioni nelle quali ci tocca operare. Fino al punto che l’Europa stessa non è ancora stata capace di sollevare, nei confronti di alcuni governi del nord Africa, la documentata accusa di crimini contro l’umanità, visto che lasciano partire frotte di barconi candidati al suicidio. Allora, in queste condizioni, in che consiste la comunità d’interessi che giustifica il nostro intervenire, armati, al fianco d’altri?

E veniamo al tema libanese. Ci s’interpose per far cessare gli attacchi di Hezbollah ad Israele. Giusto. Allora osservai che questo era il fronte più pericoloso, perché né iraniani né siriani si sarebbero fermati nel continuare a rifornire i terroristi che, in combutta con Hamas, che opera sul fronte palestinese, mirano alla distruzione d’Israele. Fin qui, fortunatamente, le cose sono andate bene, ma, temo, anche al prezzo di chiudere gli occhi sul riarmo in corso, che si svolge senza azioni cruente di particolare entità. Il tutto mentre il regime siriano rischia di cadere non per mano degli occidentali (che così cancellerebbero un loro storico nemico), ma per mano dei filo-iraniani, che sarebbero capaci di far rimpiangere i dittatori alawiti. Di nuovo: dov’è il nostro interesse nazionale?

Credo che sia ancora giusto e opportuno prendere parte alle forze multilaterali, ma senza mai cedere un passo nel far rispettare agli alleati i nostri interessi e il nostro punto di vista. Ultimamente le cose sono andate diversamente. Sia la politica a saper correggere questo squilibrio, o si finirà con il generarne uno peggiore, mettendo in dubbio il nostro posto nel mondo.

Condividi questo articolo