Nessuno degli odierni quirinabili potrebbe ragionevolmente competere in una consultazione popolare. Poco male: la gara per il Colle non si decide con l’applausometro e alcuni inquilini del passato sono stati espressione di minoranze culturali, oltre che politiche ed elettorali. Considerato, inoltre, che da Sandro Pertini in poi il vezzo della popolarità è talora divenuto un vizio, non ci sarebbe da dolersi ove il prossimo presidente ne fosse immune. Però sarebbe sciocco non vedere che il ruolo è cambiato, la Costituzione sta cambiando e il tema dell’investitura popolare è bene non sia eluso.
La nuova legge elettorale, che non troverà ostacoli alla Camera, consegna ai partiti il potere di stabilire chi sarà eletto e al vincitore la maggioranza assoluta dei legislatori. La prima cosa comporterebbe, secondo me, il cambiamento nella natura dei partiti politici, non essendo più accettabile che siano autoregolati e personalizzati. La seconda comporta un peso della maggioranza parlamentare privo di contrappeso costituzionale. Ma non è già così? No, perché anche ora c’è la schifezza del premio di maggioranza (cosa diversa dalle leggi maggioritarie), ma il Parlamento si compone di due Aule e, come accaduto, il premio in una non comporta necessariamente il dominio anche nell’altra. La nuova legge, invece, entra in vigore assieme alla riforma costituzionale, che sancisce la certezza di una maggioranza onnipotente in un Parlamento monocolo. E qui si torna al Quirinale.
L’impianto costituzionale del 1948 era omogeneo. Inserire in quello un presidente eletto a suffragio universale sarebbe stato dissennato. Ma ora è colpito senso opposto: la riforma snellisce l’apparato legislativo, ma sbilancia i poteri a favore della maggioranza parlamentare, a sua volta composta da gente scelta da un capo. Se si porta fuori dal Parlamento la logica dei blocchi e dei contrappesi (grazie alla quale abbiamo chiuso la guerra civile, ma a causa della quale ci siamo beccati il consociativismo) si dovrà metterla da un’altra parte. Altrimenti ci ritroviamo squilibrati. In molti sensi. Potrebbe accasarsi al Colle. Tanto più che dopo la riforma costituzionale il presidente della Repubblica si ritroverà senza neanche più il collegio che lo ha eletto, sicché sarebbe opportuno, dopo i passaggi elettorali e governativi, che rassegni le dimissioni.
Tutto ciò per dire che se riforma costituzionale ha da essere, non si vede perché non debba entrarci la seria discussione sul presidenzialismo, o, preferisco, semi-presidenzialismo. A quel punto avrebbe un senso la contraddizione fra la mancata popolarità odierna e la sperata e successiva capacità compensativa.
Per capire il problema usiamo dei nomi, chiedendo preventivamente scusa agli interessati. Giuliano Amato raggiunge vette di rifiuto, presso l’opinione pubblica. Lasciamo perdere le ragioni e la fondatezza, è un fatto. Ma se guardi le forze in campo ti accorgi che è il candidato considerato più appropriato, se non fosse che Matteo Renzi recalcitra. Altrimenti ci si potrebbe provare già alla prima votazione. Se Renzi resiste non è in ragione della popolarità eccessiva di Amato, che lì il rischio non si corre, né della sua incapacità o inattitudine, ma, all’opposto, per il sospetto che sia fin troppo preparato al ruolo. Lo considera ingombrante. Gianni Letta non ha nel suo medagliere esperienze elettorali, né direttamente politiche. Ne ha di governative. Avrebbe il pregio di riportare al Quirinale la sintonia fra la maggioranza elettorale reale, ininterrottamente moderata, e la storia personale del presidente. In epoca di riforme costituzionali sarebbe una scelta saggia e prudente. Nessuno dei due potrebbe ritrovarsi come a casa propria in una rifondata terza Repubblica, ma potrebbero distinguersi nell’accompagnare le trasformazioni senza per questo accrescere le macerie. Fuori da queste ci sono le mezze e mancate scelte. I candidati non per quel che sono e hanno, ma per quel che non sono e non hanno. Non a caso gira il nome di Mattarella, uno che i voti non li aveva neanche nella casa sicula, sicché dovettero candidarlo in Trentino.
Percorso imprudente, perché la storia testimonia che se la forza può generare abusi, la debolezza genera tragedie.
Pubblicato da Libero