Politica

Commissario Napolitano

Giorgio Napolitano è stato preciso ed efficace, un gran colpo da “due piccioni con una fava”: ha reso benissimo l’idea del come e del perché il presidente della Repubblica non è (per certi aspetti direi da Luigi Einaudi in poi) un soggetto esterno alla contesa politica, ma una sua espressione; e, già che ci si trovava, è tornato a render chiaro che finché si troverà al Quirinale la sinistra fa bene a considerarsi commissariata.

La Costituzione non può, al tempo stesso, essere conservata e riformata, né deve considerarsi (come Napolitano ha fatto) illegittimo o pericoloso volerne discutere i principi della prima parte o l’organizzazione dello Stato. Se il presidente lo sostiene si fa, egli, parte del gioco politico. Laddove, ove se ne voglia mantenere estraneo, non ha che da vigilare affinché, nell’ipotesi di riforma, sia scrupolosamente rispettato l’iter costituzionale. In quanto alla sinistra, nel mentre quelli si affaccendavano a dire, nell’ordine: a. discutere di semipresidenzialismo è legittimo; b. lo avevamo detto prima noi; c. oramai è tardi, l’uomo del Colle li ha spiazzati tutti, definendo pericolosa anche solo la discussione.

Enrico Letta ha ripreso una nostra proposta: concordare fin da adesso che il prossimo presidente della Repubblica, da eleggersi nella primavera 2013, sarà provvisorio. Nel senso che resta finché si fanno le riforme (favorendole e non ostacolandole), per poi dimettersi. E’ un punto fondamentale, sicché dispiace che sia stato lasciato da solo. La volontà riformatrice si verifica proprio da quella promessa (che non dovrà essere una proroga, dato che il rifiuto di Enrico De Nicola fa da insuperabile precedente).

C’è un filo che lega le necessarie riforme istituzionali alle indispensabili misure per far crescere la ricchezza. Si può afferrarlo, per non scivolare nel degrado, o si può maneggiarlo con superficialità, finendo con l’impiccarsi. Nel primo caso è la politica a riprendere l’iniziativa, rivolgendo agli italiani un ragionamento serio. Nel secondo si lascia l’iniziativa ai governi commissariali, mettendo già nel conto il declassamento, la perdita di sovranità.

Il tempo di questa legislatura è incompatibile con le grandi misure, istituzionali o economiche che siano. Per le prime perché il Parlamento è inerte e terminale, per le seconde perché il governo è oramai in stallo. Sarebbe stato saggio (lo scrivemmo e riscrivemmo) votare prima, ora, però, non si può limitarsi ad attendere la prossima legislatura. Nell’inazione e nell’impotenza muoiono le forze politiche più consistenti, quante pretesero d’interpretare il mai nato bipolarismo. Lo spazio è sempre più occupato da forze non di maggiore, ma di più limitata (ove possibile) portata culturale e programmatica. Se ci strascichiamo così ci ritroveremo un Paese stremato, schiumante di rabbia e ingovernabile. Esiste una via alternativa: comincino Pdl e Pd, comincino gli opinionisti ancora dotati di senso di responsabilità, a dire che è necessario un accordo che va da questa alla prossima legislatura, un accordo capace di sfidare il risultato elettorale, nel senso che vincitori e sconfitti s’impegnano a fare il necessario. E cioè: 1. la riforma del sistema istituzionale e di quello elettorale, sull’esempio di quel modello francese di cui scriviamo fin dagli anni ottanta del secolo scorso, assistendo a uno spettacolare trasformismo di tutti e di ciascuno; 2. la messa in sicurezza dei conti pubblici, mediante dismissione di patrimonio statale, abbattimento del debito, diminuzione della spesa pubblica e, quindi, della pressione fiscale. Da lì in poi, ciascuno torna a tessere il filo della propria tela.

E’ indispensabile che si renda pubblico un accordo complessivo, che non escluda nulla di questi due punti. Lo si faccia subito, stabilendo che chi ci sta bene, e chi non ci sta vada pure a speculare in piazza (e farà una brutta fine). Da quel punto in poi è chiaro che non si può avere tutto subito, sicché ci saranno cose che vengono prima e altre che seguono, ma mai derogando alla totalità dell’obiettivo. La sinistra di oggi dice: facciamo subito la riforma elettorale alla francese, con il ballottaggio a doppio turno. Non so se chi lo dice, sentendosi furbo, ha ben chiaro quel che significa, dato che è un meccanismo di quel tipo che li ha asfaltati, consegnandoli al PaPa-incubo (Parma e Palermo). Ma la risposta deve essere: proclamate il vostro accordo, subito, su semipresidenzialismo e doppio turno, e poi facciamo il possibile. Tanto, inutile illudersi, nessuno vincerà le elezioni del 2013 in misura tale da potere rinnegare le promesse. Anzi, ciascuno sarà sottoposto al rischio del brutale rigetto, ove ci provi.

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