Le conclusioni del congresso di Radicali Italiani sono interessanti, sotto il profilo della riflessione sulla realtà che ci circonda. Non parlo delle conclusioni relative ai loro assetti interni, per le quali non ho titolo ad intervenire, ma degli indirizzi politici che da lì sono emersi.
I radicali, ed il loro leader indiscusso (anche da chi ne discute e scelte politiche) Marco Pannella, sono stati e sono un centro d’iniziativa politica, dotato di forza e di fantasia, dotato anche, a dispetto di tante lamentele, di strumenti di comunicazione.Il guaio è che le loro incursioni politiche non destano più alcuna reazione nel resto della politica italiana. Il tessuto connettivo s’è guastato, e sebbene non sia loro responsabilità, di questo dovranno (loro e noi) pur prendere atto.
Pannella giunse a bere piscio pur di porre all’ordine del giorno la questione del plenum parlamentare, che era questione non contingente, ma di alto valore istituzionale. Ecco, gli italiani, forse, ricordano l’evento, ma nessuno può ricordare il dibattito che a quell’iniziativa si legò, per la semplice ragione che non vi fu alcun dibattito. Potrei fare altri esempi, ma non ce n’è la necessità.
Diversi interventi congressuali hanno voluto smentire l’idea che siano stati i radicali a chiudersi in un qualche isolamento, ricordando che, semmai, è vero il contrario: essi hanno continuamente cercato il dialogo ed il confronto, ma nessuno li ha presi in considerazione. Penso che le cose stiano effettivamente così, e, si badi, in questo non c’è un giudizio offensivo verso i radicali, semmai verso quel mondo politico che ragiona, se ragiona, d’altro.
Data questa situazione Daniele Capezzone, il segretario di Radicali Italiani, ha impostato la sua relazione, e la linea politica approvata dal congresso, mettendo in primo piano quello che ha chiamato il “caso Italia”, vale a dire i molti margini d’oscurità, quando non d’illegalità, che rendono ardua la praticabilità democratica. Da qui discendono alcune proposte, non ultima quella di chiamare degli osservatori internazionali a sorvegliare i nostri prossimi appuntamenti elettorali.
Ecco, anche in questo caso mi sento di aderire al ragionamento svolto da Capezzone, sebbene credo vada spinto oltre, sia rispetto alle radici del male, quanto rispetto alle cose da farsi. Non credo che il problema sia la “legalità” di questo o quell’aspetto della nostra vita collettiva, bensì la legittimità del mondo politico che riempie le istituzioni. E’ vero che questo mondo è stato votato (è non meno vero che il partito dei non votanti cresce inarrestabilmente), ma non era libero il gioco politico che precedeva ed accompagnava le ultime tre consultazioni politiche nazionali.
In altre parole, come anche dimostrano le discussioni di questi giorni attorno al caso Andreotti, non usciremo dalla palta se non saremo capaci di riesaminare e digerire l’ultimo decennio di storia italiana, dal suo inizio alla sua fine. Continuare ad ignorarlo, ad accantonarlo, a proclamare di volerlo superare e basta, ci condannerà a ripiombarci di continuo, gettando un’ombra pesante sulla legittimità dei protagonisti politici, ovunque siano schierati.
Dall’altra parte, non c’è possibilità di rianimare il gioco politico, di rivitalizzare quel tessuto connettivo, se non partendo dalla constatazione che il falso bipolarismo ha esaurito le sue forze illusorie ed illusionistiche, e che non si tratta di capire se le prossime elezioni le vincono i brancaleoni di destra o quelli di sinistra, ma di prendere atto che le armate così composte non saranno comunque capaci di governare. Questa situazione induce alcuni a reclamare il ritorno al proporzionale, ed a commettere l’errore di credere che quel sistema sia in grado di restituirci il passato. Invece no, il passato non torna, semmai solo prolunga i suoi effetti peggiori. Ma se questa ricetta è sbagliata, altrettanto lo è non accelerare la nascita di un soggetto politico che sappia giocare la propria esistenza in un sistema non proporzionale.
Possiamo portare queste consapevolezze nella battaglia politica, possiamo farne derivare proposte concretissime, che diano loro carne politica ed ossa culturali. Ma non possiamo, questo è il punto, avvertire che il mondo deve cambiare e non essere disposti a cambiare nulla di noi stessi. E dico “noi” per dire noi, non voi. Gettando sul campo solo l’orgoglio delle diverse identità democratiche, la forza della loro storia, la limpidezza delle loro idee, potremo mettere su solo il museo degli sconfitti. Il mio amico Capezzone è troppo giovane per poterne essere il custode, spero gliene manchino anche la voglia e l’intenzione.