A leggere gli appelli che lanciano le parti sociali, o gli inviti che loro rivolgono i capi dell’opposizione, sembra prendere corpo un’ipotesi surreale, ovvero che vi sia un largo accordo, politico-sindacale, mirante alla realizzazione di misure di rigore, di privatizzazione e di liberalizzazione, ma che a tale accordo s’opponga il governo. Se così fosse la soluzione dei problemi italiani sarebbe facile: cacciare gli attuali governanti e sostituirli con gli appellanti. Così non è, però.
Come spesso capita, nella vita, i grandi richiami alla fedeltà sono opera di fedifraghi, alla moralità di debosciati e alla responsabilità di approssimativi cercatori di consensi. Se si tratta di dire che il governo potrebbe e dovrebbe fare molto di più, che aspettare il terzo anno della legislatura per impostare politiche di mercato è colpevolmente tardi, qui lo facciamo quasi ogni giorno. Ma se si tratta di far credere che altri, siano essi partiti d’opposizione o parti sociali, sarebbero in grado di far prima e meglio, allora siamo alle soglie della presa in giro. Non è credibile che i sindacati si siano divisi fino a ieri, su tutto e nel merito dei contratti aziendali, e che ora si sarebbero ritrovato uniti nel proclamare la necessità di maggiore flessibilità e produttività. Non è credibile che partiti fino a ieri manifestanti a favore di chiunque chieda maggiore spesa pubblica siano oggi paladini della sua contrazione. E non è nemmeno credibile che banche e imprenditori pronti ad accusare di fondamentalismo chi si batteva per un mercato aperto e non protetto siano oggi divenuti alfieri di un nuovo sviluppo senza spesa e protezione pubblica. E’ vero che in natura ci si evolve, ma non si passa da essere pachidermi a piumati volanti in una sola notte. Il che, sia ridetto per non prestarsi ad equivoci, non significa affatto che abbiamo il migliore dei governi possibili, ma ha ragione Angelo Panebianco, quando sostiene che il “governo dei tecnici” è la versione benpensante dello scamiciato: “tutti in galera”. Un sommovimento intestinale, non propriamente un ragionamento.
Sarebbe necessario un clima di maggiore concordia nazionale, visti i pericoli della crisi? Certo che sì, accipicchia. Fin qui, però, la scena è occupata da partiti che sperano l’avversario sia arrestato al più presto. Cui si aggiunge il volenteroso entusiasmo di chi in galera ci vuole gli avversari, ma anche i compagni. Diciamo che come indice di concordia non è un granché. Semmai la premessa di un bel governo d’unità detentiva.
Il senso di responsabilità, se c’è, dovrebbe favorire l’accordo sulla modifica dell’architettura costituzionale, perché un governo senza poteri non serve al Paese, ma non è utile nemmeno a chi vi si oppone, mentre è un disastro per le parti sociali. L’equilibrio delle impotenze è fra le cause del nostro debito pubblico e della nostra bassa crescita, ed occorre intervenire alla radice, non solo con qualche pur utile potatura della chioma. Le parti politiche e sociali, in una democrazia sana, rappresentano interessi in contrasto fra di loro, quindi è innaturale che si ritrovino unite nell’applicare ricette buone per tutti (a meno che non ci siano disastri naturali, aggressioni militari o sbarchi dei marziani). Quel che possono, e devono, fare assieme, perseguendo l’interesse generale, è far funzionare il sistema democratico, mentre il nostro è proiettato nel passato, risponde ai bisogni di un’Italia che non c’è più, inserita in un mondo scomparso. Qui occorre procedere, qui occorre il dialogo. Sul resto si chiama in modo diverso: chiacchiere.
A meno che tutta la manfrina non serva solo ad offrire a Pier Ferdinando Casini l’appiglio per dire che alla salvezza nazionale devono concorrere le forze serie dell’opposizione, di modo da scaricare gli estremisti con cui si ritrova e tornare a lavorare con chi gli è più affine. Se è tutto qui, il problema, lo risolvano il Casini medesimo e Angelino Alfano: incontratevi, attempati giovanotti, dato che ciò che vi divide va cercato con attenzione, mentre ciò che vi rende simili si vede a occhio nudo.