Politica

Contabilità sanitaria

Prima di rassegnarci al conteggio dei bambini morti alla nascita, con le loro madri squassate da inutili sofferenze, cerchiamo di capire cosa succede, perché e quali rimedi approntare. Sgomberiamo subito il campo dall’ipotesi che le colpe siano da addebitarsi a personale medico incapace, quando non addirittura dedito alle risse. Può capitare il medico somaro, ma è il sistema sanitario a dovere essere ripensato. Profondamente.

Chiedo scusa per la contabilità macabra, ma vedrete che i numeri dicono molto. Nelle sale operatorie italiane si muore meno che nella media europea. La qualità dei medici è superiore, come anche l’igiene. La mortalità infantile ammonta al 3,3 per mille dei nati vivi. In Europa il risultato migliore se lo aggiudica l’Islanda (2,6), mentre in Gran Bretagna c’è la più alta probabilità che un bambino non compia mai i primi passi (5,3). Le cose vanno bene, quindi, dalle nostre parti. Ma le medie sono solo dati indicativi, la cui approssimazione risulta fastidiosa quando si tratta di vite umane, in questo caso appena venute al mondo. Se si disaggregano i dati e si guarda dentro alle cifre emerge un panorama che da le vertigini: nel primo mese di vita muoiono, al nord, il 2,5 per mille dei bambini, ma sono il 2,9 al centro e il 4,3 al sud. Se si allunga il periodo di riferimento, arrivando ad un anno di vita, le distanze crescono: nel sud muore un bambino ogni 200, nel nord ogni 300. I dati sono chiari: se isolassimo il nord saremmo i migliori d’Europa, se isolassimo il sud ci contenderemmo il posto di peggiori.

La differenza fra nord e sud d’Italia è data non dalla preparazione dei medici, e meno che mai da differenze genetiche, ma dalla modalità di gestione della spesa e delle strutture sanitarie. I dati appena fissati ci aiutano a dire una banale verità, che è tale per ogni altro aspetto della sanità: non è affatto vero che esista un Servizio Sanitario Nazionale, perché noi abbiamo tanti e diversi servizi sanitari regionali. E non va bene, proprio per niente.

Veniamo alla circolare messinese, che ha imposto ai medici ospedalieri di diminuire del 20% i tagli cesarei. Scommetto che tutti pensano sia stata improvvida, se non addirittura folle. Ma prima di randellare l’estensore vale la pena considerare un dato: secondo l’Ordine Mondiale della Sanità le nascite con assistenza chirurgica dovrebbero stare nell’ordine del 15%, in Italia raggiungono il 38. Troppe. Ma siccome il sistema è incapace sia di controllare l’effettivo bisogno del bisturi, come anche solo di stabilire un nesso fra le spese e le necessità, si affida alla statistica per guidare nel buio, sicché al reparto di cardiologia potrebbero trovarsi davanti ad una valvola da impiantare dopo che è stato superato il limite massimo previsto dalla riduzione delle spese, o in sala parto entrare una donna bisognosa di cesareo dopo che s’è esaurita la quota di quegli interventi. Prima di prendersela con i medici, allora, si tratta d’inseguire i forsennati che hanno concepito un simile sistema.

La malattia di cui soffre la sanità consiste: a. nella non separazione fra chi spende e chi controlla (le vecchie mutue funzionavano assai meglio); b. nella collettiva irresponsabilità; c. nell’irragionevole politicizzazione delle nomine; d. nella proliferazione del personale amministrativo;  e. nel trattamento burocratico e non professionalizzante di quello medico. Dove il treno imbocca un binario virtuoso, come in buona parte del nord, i difetti del sistema vengono corretti dalla pratica quotidiana. Dove si piazza su binari viziosi, come in gran parte del sud, i difetti vengono ingigantiti dalla malagestione pratica. In tutti e due i casi, però, è il sistema ad essere sbagliato. Affidarsi alla buona volontà e alla buona creanza è sempre un modo per rovinarsi.

Se ci dotassimo di una fitta rete di pronto soccorso, assistita da grandi ospedali adeguatamente attrezzati, assicureremmo migliore assistenza con minore spesa. Ma questo significa chiudere gli ospedali piccoli, che i pubblici amministratori difendono e dove i loro elettori crepano. Se affidassimo il controllo della spesa non ad amministratori nominati dalla politica, ma a mutue e assicurazioni, meno donne verrebbero tagliate inutilmente e meno bambini esposti a danni che, tra l’altro, costituiscono maggiori costi. Se trattassimo i medici come professionisti, anziché burocrati della ricetta, li vedremmo ricomparire a casa quando ci servono, mentre oggi porti il bambino dal pediatra anche se ha la febbre. Se affidassimo la spesa sanitaria alla gestione privata, vincolandola ai risultati, eviteremmo di spendere soldi pubblici per finanziare cliniche e laboratori privati e apriremmo il grande mercato dell’innovazione, fornendo assistenza domiciliare ai malati cronici, con loro maggiore comodità e minore spesa collettiva.

Quei bimbi morti alla nascita, di cui sono piene le cronache, sono solo una spia. Se si reagisce a queste notizie dicendo che la sanità italiana fa tutta schifo o che si tratta d’inevitabili fatalità, s’imboccano due strade egualmente sbagliate e inutili. La salute è un diritto dei cittadini, ma la sanità può essere un grande affare, capace di generare ricchezza. Da noi genera debiti, segnalandoci che il problema sta più negli uffici che nelle corsie.

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