Politica

Conti senza sconti

Un giorno tutti incantati dalle sirene che cantano la melodia della ripresa, il giorno appresso tutti atterriti dalle sirene che strillano l’allarme dei conti che non tornano. La classe politica non mette in scena uno spettacolo edificante, ma il resto della classe dirigente (uffici studi, giornalisti e opinion leaders compresi) è impegnata a confermare che ciascuno ha il governo che si merita. Invece non ce lo meritiamo. Abbiamo forze e numeri migliori di quel che noi stessi raccontiamo. Ma abbiamo anche preso la pessima via di far finta di credere che ci sia un governo, la cui stabilità è da preservarsi. Il governo non c’è.

Olli Rehn, finlandese e commissario europeo agli affari economici, ha dato voce a quel che gli ambienti europei ripetono e prevedono: i conti italiani non sono in linea con le promesse e le previsioni. Ma quali conti? Quelli del deficit, certamente. La decrescita del prodotto interno lordo (alla faccia della luce in fondo al tunnel, la svolta imminente e la ripresa già in atto, tutte allucinazioni indotte dall’inutilità di chi le avvalora) e la crescita della spesa pubblica (da ultimo la trovata delle assunzioni in massa, nella scuola) mettono in forse che il rapporto si fermi al 3%. Vero. Ma la Commissione europea, i partners dell’Unione e i popoli della nostra Europa dovrebbero anche considerare che l’Italia è il solo Paese a essere in costante avanzo primario del 1995 (con l’eccezione del 2009). Il nostro debito pubblico continua a crescere, perché la cura delle purghe fiscali non funziona affatto, ma cresce assai meno di quelli altrui. Germania compresa. E’ vero che non abbiamo fatto le riforme necessarie, perché governati da bambolotti imbambolati, arroganti e tremuli, ma è anche vero che la Germania le fece portando il bilancio a un deficit superiore a quello consentito dai trattati (come anche la Francia), nonché rifiutandosi (giustamente) di farsi condizionare dalle autorità europee. Al tavolo dell’Unione vorrei che sedessero ministri in grado di dire: gentili colleghi, noi stiamo aiutando i greci, donando loro soldi del nostro contribuente, mentre alcuni di voi, come gli amici tedeschi, prestando soldi ai greci guadagnandoci. Quindi, posto che quet’Europa squilibrata e squilibrante non va da nessuna parte, in tali condizioni, nel frattempo, se volete partecipare a un seminario sulla solidarietà fra i popoli e il rigore di bilancio potete accomodarvi: noi diamo lezioni e voi prendete appunti.

Invece no, sono anni che non solo facciamo i compiti a casa, non solo ci facciamo trattare da scolaretti, ma ci mettono anche le orecchie d’asino e noi chiediamo scusa. Colpa nostra, perché qualche asino, in effetti, lo abbiamo mandato a fare un mestiere per cui non gli manca solo la preparazione, ma anche solo la vocazione.

Per uscire da questo incubo non è che si debba far saltare qualche tavolo europeo. Niente affatto: si deve far saltare il blocco mentale interno. L’Italia è destinata a beccare botte da orbi, che poi si traducono in meno ricchezza e più tasse, se non prende pienamente coscienza della situazione in cui si trova. E per riuscirci dobbiamo finirla con questa gnagnera insulsa della stabilità: noi un governo serio dobbiamo ancora formarlo, non preservarlo. E per riuscirci bisogna anche che chi ha un pizzico d’attributi e una spolverata di conoscenze storiche la smetta di vivere a dignità limitata, continuando a compitare articoli in cui si legge che è il Quirinale il centro motore, la coscienza morale, il perno vitale dell’Italia migliore: è solo il luogo istituzionale non sottoposto ad alcuna verifica di fiducia e di capacità, oltre a essere l’unico luogo ove la (mala)giustizia non può mettere becco (ci provò, ma fu respinta con perdite, senza che nessun assennato osasse sostenere essere venuto meno lo stato di diritto).

Gli italiani hanno pagato e pagano, soldo su soldo, il mantenimento di tutti gli impegni sui debiti. Le imprese italiane hanno retto i conti di tutti mantenendo e facendo crescere il nostro spazio nelle esportazioni. I cittadini di quest’altra Italia, capace di correre e di non mollare, hanno un solo, grande e mortale difetto: non contano un piffero nell’Italia politica e istituzionale. Il dramma della borghesia produttiva priva di rappresentanza e peso non è nuovo. Sarà meglio ricordare che porta male.

Pubblicato da Libero

Condividi questo articolo