Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi hanno dovuto smentire quel che avevano detto e quel che, all’evidenza, pensano. Già questo racconta il livello cui è giunto il disfacimento istituzionale. Napolitano si trovava a Praga, città che non concilia la serenità in chi, ancora oggi, non è riuscito a riconoscere nel comunismo un’ideologia di miseria e di morte (i nostri ex comunisti sono assai più reticenti dei vecchi governanti cecoslovacchi: fui ospite del ministro delle comunicazioni, del governo comunista, e gli dissi che a piazza Venceslao avrebbero dovuto fare un monumento a Jan Palach, e lui rispose: un giorno ci sarà, e sarà giusto). Da Praga Napolitano ha annunciato che valuterà “i termini della questione relativa al processo breve quando saremo vicini al momento dell’approvazione definitiva in Parlamento”. I suoi collaboratori, tutti giuristi con i fiocchi, avrebbero dovuto faticare molto a trovare, nella Costituzione, un quale che sia appiglio per potere giustificare la pretesa del controllo preventivo. Ci hanno rinunciato. Di più: la firma di promulgazione non può essere intesa neanche come un controllo successivo, se non per incostituzionalità gravi e immediatamente lesive dell’ordinamento.
Silvio Berlusconi ha risposto al volo: lo convinceremo. Poi ha dovuto smentire, perché il galateo non prevede tanta disinvoltura. In realtà avrebbe voluto dire: ma che vuole? Se una legge votata dal Parlamento può essere bloccata e affossata va a farsi benedire la democrazia parlamentare.
E’ un errore credere che l’oggetto del contendere sia una specifica legge, piuttosto il principio che una maggioranza possa legiferare e governare. Il “processo breve” è un falso problema, anche perché ha un nome falso: non è breve manco per niente. La legge in discussione ha due colpe: a. non accelera i processi, ma li tronca; b. i tempi massimi sono ancora lunghissimi, quindi incivili. Chi strilla contro dice due bugie: 1. non è vero che si “ucciderebbero” molti processi, perché (tantissimi, troppi) sono già morti, già fuori tempo massimo, si potrebbero usare le parole di Ferruccio Ferrucci a Maramaldo: vile, tu uccidi un uomo morto; 2. l’incostituzionalità più mostruosa è l’insistita negazione del giusto processo (articolo 111, secondo comma). Si può sostenere che la legge in discussione non risolve i problemi, ma non certo che reca ingiustizie. La “minaccia” quirinalizia, quindi, ha un valore tutto politico.
La questione è questa: si allarga sempre di più il fronte di quanti considerano semplicemente illegittima la pretesa della maggioranza di governare e, al tempo stesso, si allarga sempre di più la maggioranza parlamentare, dopo la scissione finiana. I primi fanno appello al Quirinale (Alberto Asor Rosa alle forze dell’ordine, levateje er vino), la seconda al Parlamento. Nessuno riesce ad immaginare il futuro. I sacerdoti del bipolarismo entrano in crisi mistica, com’è capitato a Beppe Pisanu e Walter Veltroni, che si accorgono delle cose che scrivemmo anni fa con un imbarazzante ritardo, dopo avere profittato al massimo di quel che oggi biasimano e così entrando nella più antica famiglia del parlamentarismo italiano: quella trasformista. Ai firmatari dell’accorato appello per un governo di decantazione (riecco il vino), come a tanti politici italiani, sembra non essere chiara una regoletta semplice: si può anche uscire di scena, ammettere gli errori e ritirarsi, così trovando il tempo, nella vita, per fare due cose nuove e meravigliose: lavorare e pensare. Da noi, invece, s’esce solo mortis causa.
Giorgio Napolitano è rimasto il potere capace di rintuzzare le pretese della maggioranza. L’unico che per esercitare un potere non debba raccogliere la maggioranza dei voti popolari, cosa che, evidentemente, la sinistra considera difficile. Ed è questa la vera e profonda radice della loro sconfitta, il non credere che si possa battere Berlusconi, sicché cercano d’abbatterlo. Radice di un’antica malapianta, che non crede la democrazia sia un valore in sé, ma solo in quanto riesca ad essere sociale, o progressiva o come altro il loro analfabetismo della libertà l’ha definita. Per forza che a Praga si perde la serenità.