E’ stato il presidente della Repubblica a prendere l’iniziativa d’avviare la discussione sul suo successore. Se qualcuno avesse fatto pressioni in tal senso sarebbero state illegittime ed offensive, mentre non si può sindacare la volontà del diretto interessato. Ora, però, si pone un problema: la discussione non può essere troppo lunga, quindi le dimissioni siano ravvicinate. Questione di giorni, ad essere ragionevoli. Ciò non solo perché il protrarsi dell’incertezza logora i già sfilacciati rapporti politici, ma anche perché tutto questo ha un senso se il tempo scelto ha a che vedere con le scadenze economiche ed istituzionali, non certo con le pur comprensibili debolezze e stanchezze umane. Attenzione, perché da questa partita dipende non il futuro di qualche accordo o partito, ma la piega che prende la gestione di un passaggio delicato e traumatico della nostra storia nazionale.
Il tempo scelto da Giorgio Napolitano, lo scrivemmo, non è casuale. La fine di marzo porterà con sé una resa dei conti economici. Si potrà far melina, far finta che il disallineamento fra la legge di stabilità e la realtà non sia significativo, ma non si potrà trascinare il rimedio oltre la primavera senza esporre l’Italia a un durissimo contraccolpo di credibilità. Il cui costo supererebbe quello di riforme e tagli. Solo dei pazzi posso immaginare di gestire un simile scenario. Quindi, delle due l’una: o a fine marzo il governo è nelle condizioni di durare, cambiando i numeri sui quali oggi giura e chiede la fiducia; oppure, se tutto deve saltare, è meglio che salti prima. Se alle elezioni si deve andare, meglio andarci prima.
Credo che Napolitano abbia visto come assai probabile, o, quanto meno, come pressantemente richiesta questa seconda strada, ma non essendo disponibile a imboccarla, non volendo sciogliere lui le Camere, ha predisposto le dimissioni in tempo utile perché altri possano farlo. Si tenga anche presente che, al di là delle sue convinzioni personali, e anche del dolore provocato dal vedere fallire governi da lui creati, privi di copertura elettorale (cosa che la nostra Costituzione consente), Napolitano non poteva e non può privare il Colle di una precisa prerogativa costituzionale, ovvero il potere di scioglimento. Non volendolo esercitare, se ne va.
La palla passa alla politica, ma non si può palleggiarla troppo a lungo. Sono possibili tre scuole di pensiero, tenute presenti le scadenze economiche. La prima è quella che qui avevo esposto e sposato: serve un presidente condiviso, figlio del Nazareno, ma dotato di forza e credibilità proprie, perché le scelte che dovrà compiere sono tali da tirargli addosso molte critiche, laddove le mezze tacche andrebbero in cerca solo di applausi. Escluso Mario Draghi, la cui ascesa al Colle significherebbe la discesa agli inferi dell’euro, feci due nomi. Uno era quello di Giuliano Amato. Leggo che Silvio Berlusconi ha esposto lo stesso ragionamento, cosa che trovo confortante per la politica.
La seconda scuola di pensiero introduce una variante, che cambia completamente il risultato: il futuro presidente sia figlio del Nazareno, ma sia una persona priva di propria forza, talché i due contraenti possano considerarlo un notaio, se non un esecutore, dei propri accordi. Sia Berlusconi che Matteo Renzi non hanno in gran simpatia le persone indipendenti. Amano comandare e coniugano i verbi usando solo la prima persona singolare. Questo, però, sarebbe un duplice e pericolosissimo errore: da una parte perché significa affrontare un momento difficile con al Colle un osannato nessuno (o nessuna, che non cambia nulla); dall’altra perché il Colle trasforma i nessuno capaci di nulla in taluno capaci di tutto.
La terza scuola dice: posto che questa legislatura assiste a migrazioni trasformistiche che se Agostino De Pretis rinascesse considererebbe smodate, il dinamico Renzi potrebbe ben puntare a farsi un presidente in proprio, usando i voti della truppa Pd, tremula innanzi all’idea che le urne anticipate equivalgano ad anticipata dipartita, cui detrarre quelli dei franchi tiratori sinistri, che saranno un plotone, ma cui sommare i cecchini misti, provenienti da destra (nella versione governamentale e in quella di faida interna) e dalle fila frinenti, che sembrano essere nate apposta per dimostrare che avevano ragione quando descrivevano la politica come una schifezza. Renzi ha dimostrato un favoloso talento naturale nel manovrare ed emergere, ma se cade in una simile tentazione apre la strada all’ennesima guerra civile. Sperando sia incruenta.
Queste tre scuole non possono convivere a lungo. Marzo è vicino. Ci si dia un taglio e ci si metta alle spalle questa partita.
Pubblicato da Libero