Politica

Corte e urne

La (necessaria) riforma del sistema elettorale chiama in causa due ordini di problemi: uno relativo al referendum e alla Corte costituzionale, che è riunita per deciderne l’ammissibilità; l’altro relativo alle forze politiche maggiori, il cui sguardo sembra appannato, come quello di un pugile che rimane in piedi più per forza del destino che per forza propria.

Il giudizio della Corte dovrebbe riguardare la coerenza costituzionale dei quesiti, ma, in realtà, anche in quel collegio la discussione sarà politica. In passato ha ammesso quesiti di dubbia costituzionalità, sicché oggi un cambio d’indirizzo sarebbe in contrasto con uno dei pilastri del diritto reale: il precedente. Ciò non toglie, però, che la debolezza costituzionale dei quesiti è notevole, senza che possa farla venire meno l’appello dei 100 costituzionalisti (favorevoli al referendum), né la difesa che ne ha fatto Angelo Panebianco, dalle colonne del Corriere della Sera. Abrogare una norma per cambiare la legge è normale, ma abrogare una precedente abrogazione, per far rivivere un sistema defunto, ne è un’interpretazione ardita. Il paragone con il divorzio (che se fosse stato cancellato non avrebbe affatto modificato la legge sul matrimonio) non sta in piedi. E se un uomo del valore di Panebianco è costretto a farlo è segno che non ha trovato di meglio.

Il precedente sistema elettorale (che porta il nome di Mattarella), nasce da due precedenti referendum, e questo è l’argomento migliore, per i referenderi: se non si procede in quel modo non si procede affatto. Ricordo, però, che all’inizio di questa ennesima tornata c’era una proposta referendaria promossa da Stefano Passigli, mirante ad abrogare il solo premio di maggioranza. Era costituzionalmente coerente e aveva un punto di caduta stabile (condivisibile o meno, è altro discorso), ovvero il proporzionale. Ma è stata la sinistra ad affondarlo, visto che Bersani ha preferito l’altro fronte.

Veniamo al dunque: il sistema Mattarella e quello Calderoli (l’attuale) sono diversi, ma si somigliano su un punto, decisivo: premiano le coalizioni, anche se disomogenee. Con il vecchio sistema elettorale il centro destra ha vinto due volte e il centro sinistra una. Con l’attuale siamo, per ora, al pareggio: uno a uno. Dal 1994, però, raccontiamo agli italiani che possono scegliere chi governa, ma poi non governa nessuno, chiunque vinca, perché le coalizioni si spaccano e bloccano. Vi sembra sensato, dopo diciotto anni, dovere ancora scegliere fra due mali?

Se la Corte deciderà di ammettere i referendum diventerà forte la spinta alle elezioni anticipate. Anche perché ho l’impressione che il vecchio sistema sia un vantaggio, oggi, per il centro destra. Se la Corte non ammetterà quei quesiti, c’è il rischio che si fermi tutto. Invece, se la politica esistesse, si dovrebbe procedere comunque. E velocemente.

E’ sotto gli occhi di tutti che le due coalizioni sono, oramai, spappolate. Resuscitarle con il sistema elettorale è puro horror. Il governo si regge in piedi grazie al voto favorevole dei due grossi partiti, Pdl e Pd, nessuno dei quali si riconosce nel programma e nella missione del governo. I loro alleati sono variamente all’opposizione, tanto è vero che si ritrovano assieme quando, in piazza, vanno a contestare l’esecutivo. In queste condizioni sono i grossi partiti ad avere interesse alla riforma del sistema elettorale, perché se si va a votare con uno di quei due sistemi vince il cinico che accetta gli alleati peggiori pur di superare gli avversari. Bella roba. La mattina dopo, come al solito, salta tutto.

Che tipo di riforma fare? Diciotto anni di berlusconismo hanno abituato al bipolarismo, che, però, non c’è mai stato. Pura illusione. La classe politica, nel frattempo, è stata selezionata in modo che fosse il meno politica possibile. Anche brave e competenti persone, che, però, hanno il ruolo che potrei avere io in una sala operatoria: nessuno, salvo svenire. Come conciliare, allora, la ricerca della stabilità con quella di maggiore qualità? Con sistemi uninominali. Non con le preferenze, perché chi le chiede non le ricorda.

Collegi piccoli, candidati che ci mettono la faccia e che siano raggiungibili, maggioritario implicito, perché se i collegi sono piccoli i partiti minori fanno fatica a prendere seggi (e se trovano candidati capaci di vincere è segno che non sono affatto minori). E’ questione politicissima, non tecnica. E’ tema decisivo per la prossima legislatura, ove non ci rassegni a un Parlamento arcobalenico, protestatario e impotente. Se Pdl e Pd non batto un colpo, è segno che hanno superato l’ultimo stadio, non esistono più. Non abbiano il timore di mediare fra loro, che tale paura somiglia molto al vergognarsi di sé.

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