Politica

Cricca & Crisi

No, non basta dire: chi ha sbagliato deve pagare. Non basta perché è esattamente quello il problema italiano: non si riesce mai a sapere chi ha sbagliato, e quando lo si stabilisce è tardi anche per pagare. Siamo sempre nella palta di partenza, con un’etica pubblica priva di campanelli d’allarme, priva di sensibilità morale, priva di connessione fra le condotte dei singoli e i giudizi elettorali, cui fa riscontro una giustizia largamente ingiusta, che ancora adotta il più incivile e illegale dei principi, a suo tempo teorizzato dal pool mani pulite di Milano: chi collabora non sarà arrestato, chi si avvale dei diritti che la legge gli riconosce perde quello di tornare a casa. Il giorno dopo l’arresto di Silvio Scaglia scrissi che quella carcerazione gridava vendetta. Sta scorrendo il terzo mese ed è ancora al gabbio.

Affrontiamo, quindi, l’ennesima crisi morale avendo a disposizione la peggiore giustizia del mondo civile. Il risultato sarà pessimo, e la colpa va attribuita alla corporazione togata, che si veste di rosso ma ha l’anima reazionaria, come anche alla politica. Sono passati troppi anni, si sono fatte troppe battaglie, si sono varate troppe leggi inutili. A questo punto, la non riforma è una colpa. Cui se ne aggiunge un’altra, subdola e inaccettabile: alle nostre spalle, che combattiamo a viso aperto contro il giustizialismo, facendone puntualmente le spese, si pretende che tutti siano difesi dalle inchieste, indistintamente bollate come pretestuose. No, per niente. La giustizia fa schifo perché non è capace di far seguire le sentenze alle inchieste, quindi di far valere i diritti processuali che spettano a tutti gli imputati, ma questo non significa che non esistano ladri e lestofanti. Il guaio, come ho avvertito all’inizio, è che la civiltà del diritto c’impedisce di considerare tale chi non è condannato.

Non potendo sospendere i giudizi all’infinito, non potendo delegare la democrazia ai magistrati (sia nel caso che si creda alle accuse, sia in quello in cui si attendano le posticipate sentenze, sia in quello che si sostenga l’innocenza degli amici e la colpevolezza degli avversari), veniamo al dunque. Questa non è Tangentopoli, nel senso che la politica c’entra poco e niente. Un tempo, il grosso dei soldi illeciti andava ai partiti, restandone solo una parte attaccata alle mani di profittatori e mascalzoni. Qui succede l’esatto contrario: solo qualche spicciolo arriva alla propaganda politica, il resto si nasconde nelle tasche private. Un tempo erano i vertici dei partiti a governare il sistema, che tutti li coinvolgeva, ora sono le seconde e le terze file a far quello che lor pare. Per ottenere questa mutazione genetica sono stati necessari due passaggi: a. lo scadimento della classe dirigente, con la promozione di mezze calzette ai posti più delicati; b. la perdita di ruolo e vergogna dell’alta burocrazia statale, che ha esteso complicità trasversali capaci di coinvolgere funzionari, magistrati e privati arrampicatori.

Guardate al caso della protezione civile, di cui descrivemmo immediatamente la deviazione, con i fatti che ci danno ragione: nell’intervenire in caso di disastri e calamità funziona benissimo, ma, in ragione di quell’efficienza e di quei successi, ha esteso la competenza in ambiti del tutto impropri, genericamente definiti “altri eventi”. Quella struttura, insomma, s’è prestata a risolvere non solo le emergenze, ma anche i problemi derivanti dalla macchinosità e lentezza degli appalti pubblici, aggirando le regole. Aggira oggi e aggira domani, s’è creato un mostro.

Adesso si deve rimediare, cosa di cui non sono capaci né le inchieste né il balbettio delle dichiarazioni politiche. Le cose da farsi, per rimanere al tema, sono due: 1. cambiare la normativa degli appalti pubblici e ridisegnare i confini delle competenze territoriali, in modo che lo Stato non venda quel che è delle Regioni e viceversa; 2. abbattere il muro dell’inefficienza giudiziaria, rendendo effettiva la minaccia di galera, meritata con condanna, per chi commette gravi reati. Dopo, immediatamente dopo, si potrà sanare la realtà precedente, in modo da non far schiattare le riforme sotto l’immane peso delle inefficienze e dei ricatti pregressi. Chi pensa d’invertire i tempi non ha capito l’aria che tira.

Di cricche è piena la storia e disseminate le democrazie (posto che le dittature sono i sistemi più corrotti e corruttori), ma le masnade di profittatori non mettono in crisi i sistemi. Salvo in un caso, quando la cricca si combina con la crisi, quando chi perde ricchezza ha la sensazione, magari infondata, che ciò capiti perché altri gliela ciucciano via, quando i lussi non meritati s’accompagnano non con la crescita del benessere collettivo, ma con l’imposizione di dolori ai cittadini. Ci siamo, noi siamo in questa condizione.

Per questo, non per furbizie tattiche, già alla metà dell’anno scorso cominciammo pubblicamente a ragionare d’elezioni anticipate, perché c’era chiaro sia il mancato dinamismo governativo che l’incombere degli effetti veri della crisi, che allora s’avvertivano solo flebilmente. Le cose sono andate come sappiamo, il tempo è trascorso, ora quella strada non è percorribile, o presenta rischi elevatissimi. Ma guai a stare fermi, proprio perché il pericolo è alto l’azione deve essere rapida. Guai a sottovalutare il cocktail “crisi & cricca”, capace di avvelenare un corpo sociale già attraversato da brividi d’egoismo, sudori di paura e sussulti di rabbia.

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