Non vogliamo i democristiani al governo, tuona Umberto Bossi. Non tradiremo gli elettori andando al governo con la Lega, risponde Pier Ferdinando Casini. Il fatto è che Bossi e Casini sono già stati al governo assieme, avendo come compagno (o camerata?) Gianfranco Fini, il che dovrebbe suggerire, a loro ed a noi, di non abbandonarsi alle sparate prive di senso compiuto. Servono, semmai, il coraggio e la lucidità di descrivere e affrontare i problemi per quel che sono. Il nostro problema non è la costruzione di un grande centro, ma quello di sottrarre i governi al dominio dell’estremismo e alle dipendenze delle fazioni. Fra destra e sinistra non si sente il bisogno di una terra di mezzo, che è divenuta terra di nessuno, ma di rimandare in orbita gli extraterrestri e dare spazio ai moderati e ai pragmatici.
All’inizio di questa estate, passata a parlare di politica senza occuparsi d’altro che di questioni personali, mi parve non convincente l’abbozzo di “terzo polo”, nella supposta convergenza di Casini con Fini e Francesco Rutelli. L’idea che s’aggreghi anche Luca Cordero di Montezemolo, magari pensando di guidarlo, non cambia le cose. Di tali componenti l’unica che ha una qualche consistenza elettorale è l’Udc, che deve la sua sopravvivenza alle urne al gruppo siciliano di Totò Cuffaro e che ha preso voti, successivamente, solo quando alleata al centro destra. Essendo siculo io stesso, non c’è nulla di prevenuto nell’osservazione appena fatta, ma una semplice constatazione: l’Udc, elettoralmente parlando, non è un gruppo nazionale e ha uno spazio contiguo al Pdl. Sommando ciò a dei fuoriusciti, perché tali sono sia i rutelliani che i finiani, non si ottiene una forza politica di centro, ma una zattera troppo piccola per salvarli tutti.
Bossi, che è uomo concreto e realista, queste cose le sa bene, ma s’oppone al (naturale) dialogo fra Silvio Berlusconi e Casini per due ragioni: primo, perché suppone (saggiamente) che non se ne faccia nulla, sicché la cosa sembrerà dovuta alle sue parole; secondo, perché ogni ingresso non farebbe che diminuire il potere e l’influenza della Lega che, non lo si dimentichi, è l’origine dei problemi con Fini. Tutto questo, però, interessa pochi e diverte pochissimi. Gli altri ne hanno le scatole piene.
Il vero problema non è il copione di questa poco avvincente opera dei pupi, ma il fatto che l’Italia ha perso il luogo di governo, la possibilità che qualcuno, una volta eletto, faccia almeno la metà delle cose che vorrebbe. Ciò dipende dal fatto che il nostro sistema istituzionale è stato cucito addosso ad un mondo che non esiste più, a suo tempo capace di esprimere una straordinaria stabilità a fronte di un susseguirsi di crisi di governo. Ho letto carrettate di superficialità e luoghi comuni rilegati e blasonati, ma la verità è che noi e i giapponesi siamo stati i Paesi con i governi più stabili (solo quattro formule, in cinquanta anni: centrismo, centro sinistra, solidarietà nazionale e pentapartito), compensando ciò con continui aggiustamenti dell’equilibrio interno. Gli estremisti, in quella stagione, erano fuori dal governo, e talora fuori dal Parlamento. Ora è diverso, perché perduto il collante partitico, e il bozzolo dovuto alla guerra fredda, gli elettori continuano ad essere complessivamente moderati, sia a destra che a sinistra, ma gli eletti finiscono prigionieri dell’estremismo, con il quale non governano e senza il quale cadono.
Siccome il territorialismo è divenuta una delle versioni dell’estremismo, ne consegue che il confine padano della sua espressione originaria suggerisce fenomeni replicativi, segnatamente al Sud. Il che mi fa molta impressione, perché, ho più volte sostenuto che, a dispetto dell’eloquio leghista, l’unità nazionale corre seri rischi da Sud, non da Nord. E se non si trova il modo di rimettere il governo al lavoro questo genere di tensioni diventeranno incontenibili. A quel punto sorgeranno forze nuove, dove il “nuovo” non sarà affatto sinonimo di “migliore”.
Rimettere il governo al lavoro, però, non si concreta nel trovare qualche parlamentare idealista, che sia disposto a votare per il governo pur essendo stato eletto per l’opposizione. Sarebbe come mettere un cerotto sulla giugulare tranciata. La questione è profondamente istituzionale, e consiste nel riscrivere la Costituzione in modo da dare potere reale a chi è stato eletto per guidare il governo e rappresentatività reale al Parlamento, mettendo mano ad una selezione meno familistica e clientelare della classe politica.
L’Italia non sa che farsene di qualche accordicchio, destinato a reggere il governo o a sostituirlo con un non governo. La lettera costituzionale lascia spazio per questi giochini, ma praticarli è da incoscienti. L’Italia attende una classe dirigente che non rinunci a idee e programmi diversi, ma trovi la dignità di affermare che senza la riscrittura delle regole potremo solo assicurarci altre estati come questa: ferocemente inutili. Ecco, quando ne sentiremo parlare vorrà dire che stanno prendendo forma forze politiche serie, responsabili e moderate, che solo in virtù d’una dislocazione ottocentesca, in ragione di taluni loro programmi, definiremo di destra, di sinistra o di centro.