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CriStallo

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Se si crede siano utili le riforme costituzionali – e talune lo sono – occorre metterle in salvo dai mesi e travagli che arrivano. La politica consuma in fretta i suoi figli, anche se poi rimangono immarcescibili colà dove si trovano. Il ciclo parte con il «Abbiamo tutte le soluzioni, se solo ci date tutti i voti», poi passa al «Grazie per la fiducia e la vittoria, ora cambieremo tutto», quindi si procede con improbabilissimi «Per la prima volta nella storia…», ergo matura il tempo de «L’Italia finalmente protagonista» e poi s’imbocca il «La maggioranza è salda, finiremo la legislatura». È a questo punto che comincia il conto alla rovescia, perché se c’è una cosa evidente è che la maggioranza non è concorde manco per niente.

Nella prima Repubblica si aggiustavano governi e maggioranze. Se proprio non ci si riusciva si convocavano le elezioni, per poi rifare governi con gli stessi ministri e, più o meno, gli stessi partiti. Tutti parlavano della drammatica instabilità, ma l’andazzo era stabile assai. Nella seconda, dal 1994 e fin qui, la regola è stata diversa: la sinistra si comporta come gli aerei, che se vanno in stallo cadono, quindi cambiava guida, rimaneggiava la maggioranza e poi crollava; la destra, anche grazie alla forza di Berlusconi e del suo partito, affrontava la crisi crioconservandosi: non cadeva ma neanche procedeva, s’inchiodava; i pentastellati innovarono, nella scorsa legislatura, dando vita a due governi di colore opposto, per poi prendere parte a un terzo. Vedremo ora, ma che la luna di miele – fra i coniugi governativi – sia finita si può vedere dall’afrore di fiele che promana da ogni dossier.

In queste condizioni le riforme costituzionali sono su un binario morto. Già i tempi sono stretti, la sabbia scorre nelle clessidre, figuriamoci se ci si mette a far distinguo. Sarebbe quindi saggio cambiare approccio.

La riforma relativa alla separazione delle carriere, fra magistrati della Procura e giudici correttamente intesi, trova consensi anche fuori dalla maggioranza di governo. Facendo un lavoro serio e non fazioso quel consenso può ulteriormente allargarsi e quella può divenire una riforma se non di tutti comunque di molti. Carlo Nordio ha le carte in regola per interpretare questo dialogo, sempre che non continuino a depotenziare e rendere tendenzialmente inutili i provvedimenti che prepara. Varrebbe quindi la pena che quella riforma viaggi con maggiore speditezza e determinazione, aprendosi al confronto parlamentare che in altri casi è stato negato anche ai parlamentari della maggioranza.

In quanto alla riforma impropriamente intitolata al ‘premierato’, la stessa presidente del Consiglio ha voluto fissare due paletti: a. la cosa non riguarderebbe comunque lei e i suoi poteri, visto che sarebbe proiettata nel futuro, quindi i successori; b. il governo andrebbe avanti – se ci riesce – anche in caso di bocciatura referendaria e prima ancora per impantanamento parlamentare. Stanti così le cose, se si pensa seriamente sia necessario e considerato che il testo proposto è, a dir poco, da perfezionare, converrebbe tornare a quel che Fratelli d’Italia sostenne nel corso della campagna elettorale: facciamone oggetto di una sede ricostituente, appositamente insediata. Meglio ancora se con voto popolare. In questo modo il lavoro svolto sarebbe salvato anche nel caso non fosse completato al termine, naturale o meno, della legislatura.

Non sarebbe un venir meno agli impegni presi, semmai l’opposto: la dimostrazione che si è aperto il processo di riforma non per mera propaganda, non per la tronfia e solitamente sfortunata ricerca del ‘governo forte’, ma nella forte convinzione che sia un bene per l’Italia. Chiunque si trovi a governarla.

Trovo scontato che una simile impostazione cascherà nel vuoto, ma in quel vuoto casca anche la pretesa di vestire i panni dei costituenti, in realtà riproducendo un esperimento declamatorio che si è già fatto talmente tante volte da non avere più il pregio della credibilità.

Davide Giacalone, La Ragione 26 luglio 2024

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