Quello firmato dai rappresentanti di imprese, cooperative, lavoratori e banche è un atto importante, che può preludere a svolgimenti positivi. Può essere un vero punto di svolta. Oppure può dimostrarsi una trovata tattica, un passaggio fra i tanti della lunga agonia di questa seconda Repubblica. La grande differenza sta nel tipo di tema che s’intende affrontare e nella sede cui si punta: se di tipo governativo ed economico, o se di portata parlamentare e istituzionale. Nel primo caso il respiro sarà corto, nel secondo c’è da ben sperare.
Gli attacchi speculativi di cui l’Italia, non da sola, è oggetto non si placheranno quale che sia politica sarà adottata all’interno. Non si fermeranno perché scaturiscono non dalla sfiducia nel nostro debito (siamo debitori affidabilissimi), ma dalla fiducia, ben riposta, che si possono fare dei gran soldi grazie ad un’architettura monetaria che federalizza la valuta, ma non i debiti. Terreno ghiotto, che i mercati non si lasceranno sfuggire. Terreno non bonificato dagli accordi europei che, semmai, hanno invitato a lasciar perdere la Grecia per puntare altrove. Questi sono problemi che vanno affrontati in sede europea, non esistendo alcuno strumento nazionale in grado di risolverli.
Ciò non toglie che noi abbiamo gravi debolezze, a cominciare dal debito troppo alto e una crescita troppo bassa. Sono problemi antichi, quindi strutturali, e sono problemi nostri. Tocca a noi provvedere. Se su questi si agisce in ragione di questa o quella “emergenza”, le misure adottabili non sono un menù infinito. Chiunque si trovi a governare farà, più o meno, le stesse cose. E se non le facesse metterebbe a repentaglio la sicurezza nazionale. Da qui la nota scena: i governanti dicono una cosa e il governo ne fa un’altra. Se è a questo scenario che l’appello è rivolto, quelle resteranno parole, quali sono. Non serve un governo diverso, di larghe intese o istituzionale, per fare quel che si sta facendo e quel che si sarà costretti a fare. Anzi, un governo di quel tipo rischia d’essere (ove mai sia possibile) ancora più debole.
Diverso, invece, se si punta il dito alla radice del male: il nostro sistema istituzionale. Perché non si sono fatte quelle riforme profonde e strutturali di cui in tanti parliamo da anni, al punto da essere noiosi a noi stessi? Perché non se ne è capaci, perché se una maggioranza si mette al lavoro in quella direzione automaticamente si spappola. Che sia di destra o di sinistra, sarà comunque disomogenea e priva di un governo governante. Non è un’ipotesi, ma la storia di tre lustri. L’accordo serve, allora, il ritrovarsi in tanti, sebbene non tutti (l’unanimità è inquietante e irraggiungibile), è utile, se ragioniamo di riforme costituzionali.
Un esempio: la sinistra varò una pessima riforma costituzionale, relativa alle autonomie locali; successivamente la destra la corresse, in senso maggiormente unitario (Calderoli non ha torto, quando dice che certe cose fanno impressione) e ne approfittò per diminuire il numero dei parlamentari; dopo di che la sinistra chiese il referendum, la destra si squagliò e la riforma fu bocciata; ora si sente la sinistra che suona le trombe dell’unità e tutti che vogliono meno parlamentari. E’ una storia di matti, che ha notevolmente accresciuto sia il costo della pubblica amministrazione che della politica. Una storia che dimostra l’impossibilità di uscire dal pantano senza riforme costituzionali condivise, che rendano effettivo il potere di governare e facciano nascere la terza Repubblica.
L’appello di produttori e protagonisti del mercato è una gran bella cosa, se rivolto ad una politica fin qui incapace di uscire dal passato. Se, invece, fosse un documento più furbo che astuto, utile a far politica politicante, la sua sorte è segnata. E non gloriosa.