Politica

Da Pallante a Tartaglia

Il gesto d’un demente non deve cancellare il significato politico delle cose dette domenica scorsa. Né può cancellare il problema di questa stagione politica, ovvero la pretesa di amministrare la legittimità politica, quindi a governare, ponendo in secondo piano il risultato elettorale. In quanto all’attentatore, a me è venuto subito in mente il nome di Antonio Pallante, che il 14 luglio del 1948 sparò a Palmiro Togliatti. Da allora ad oggi la democrazia italiana è divenuta assai più forte, ma la qualità della classe dirigente assai più discutibile. Le reazioni, a caldo, ne sono state la dimostrazione.

Prima di ragionare sull’accaduto serale, però, fermiamoci su quanto Silvio Berlusconi ha detto, dal palco: il governo funziona, noi andiamo avanti. La mia sensazione era diversa, e l’ho scritto, non sembrandomi che governo e maggioranza godano di così buona salute. Avevamo, pertanto, messo nel conto anche l’ipotesi d’elezioni anticipate. Quelle del 2008 sono state vinte, dal centro destra, in modo netto, salvo il fatto che il cofondatore del partito unico ha preso a navigare per i fatti suoi e sul presidente del Consiglio è tornata a pesare l’ipoteca giudiziaria. Gli elettori, insomma, si sono espressi chiaramente, gli eletti, invece, annaspano nel sempre uguale. I primi hanno scelto per il presente, i secondi, però, preferiscono occuparsi di un (loro) futuro, di cui sfuggono i contorni.

Parlando ai milanesi, Berlusconi ha cancellato l’ipotesi d’elezioni ravvicinate. Questo era il messaggio più importante. Un segnale che le cose stavano andavano in quella direzione, del resto, lo si era avuto quando Pierferdinando Casini s’era lanciato nella bislacca (e scivolosissima, ci torno) idea di una specie di comitato di liberazione antiberlusconiano. Lo aveva fatto perché s’era mosso in direzione diversa, mettendo nel conto l’ipotesi di un’alleanza elettorale con Berlusconi (le sue aperture sulla giustizia andavano in parallelo con le chiusure di Fini), nel caso dell’anticipo immediato. Successivamente, secondo le intramontabili regole del mondo democristiano, ha corretto l’equilibrio negando con eccesso d’enfasi.

Poi è arrivato l’attentato, che poteva essere più dannoso di quello subito da Togliatti, visto che Pallante aveva comprato una pistola farlocca e l’aveva armata con cartucce mosce. Ma aveva sparato, ed aveva colpito. Togliatti si comportò come oggi Berlusconi, mandando a dire che stava bene e di mantenere la calma. Fu Gino Bartali a stemperare la tensione, vincendo il Giro di Francia. Pallante disse di avere sparato perché, quale esponente del Cominform, Togliatti era un nemico. Nessuno fu così bestia da sostenere che, capeggiando il Cominform, Togliatti aveva provocato o se l’era cercata. E, per chi fosse deboluccio in memoria, ricordo che il Cominform, ed il suo capo, avevano sulla coscienza i morti e l’avversione alla libertà, non qualche falsa testimonianza o qualche alterazione di bilancio. La pericolosità del gesto di Pallante non stava nel suo agire isolato e pazzoide, ma nell’essere credibilmente parte di un contesto da guerra civile. Il nostro odierno demente, Massimo Tartaglia, ha la stessa valenza, con l’aggravante che ha trovato tanti silenzi e qualche parola di copertura.

Dov’era Pierluigi Bersani, domenica? Come ha fatto a non capire che era non solo civile, ma conveniente precipitarsi a solidarizzare e far tacere i suoi estremisti interni? E’ arrivato il giorno appresso, con scarsa prontezza di riflessi politici. E come fa il Partito Democratico a non reagire in modo inequivocabile alle parole di Antonimo Di Pietro? Anzi, con Rosy Bindi, sembra parlare la stessa lingua, istituzionalmente sgrammaticata. E’ grave, quel che hanno detto, ed è gravissimo che gli altri non se ne rendano conto. La lotta politica è bene sia ruvida e puntuta, può essere anche durissima, ma non appena un fronte individua nell’altro il “nemico” automaticamente s’è messo un piede fuori dalla democrazia. Per questo Casini ha sbagliato, quella chiamata all’unità è non solo programmaticamente artificiale, ma strutturalmente pericolosa (oltre a somigliare alle coalizioni di Prodi, contro le quali Casini stesso si batteva).

Nel determinare un clima eccessivo hanno concorso le sconclusionatezze di ambo le parti. Ma non si può pensare che il rispetto, anche fisico, dell’avversario sia una subordinata del suo tacere o abbozzare. Non si può pretendere che chi governa taccia i mali profondissimi della giustizia italiana, nei giorni scorsi trasmessi in mondovisione, o accampare l’insana tesi che l’attesa di un giudizio penale abbia prevalenza sul giudizio elettorale. E se è vero che in uno Stato di diritto ci si difende nel processo, è anche vero che tutti gli ordinamenti democratici hanno guarentigie per gli eletti ed i governanti, così come che la pretesa di un giudizio morale, alternativo a quello elettorale, è tipico dello Stato etico, non di quello democratico.

Parteggiare per Silvio Berlusconi, e la sua formazione politica, è legittimo. Lo fa la maggioranza degli elettori, del resto. Battersi contro di lui e per l’altra parte politica è altrettanto legittimo. Lo fanno molti elettori, del resto. Ma pensare di risolvere la faccenda prescindendo dalla misurazione del consenso elettorale è antidemocratico. E’ illegittimo. Chi non lo capisce ha un difetto di cultura, e di coscienza. Non sa cosa sia il comune sentire istituzionale, sconosce il senso dello Stato. Per questo, talune parole sono state vergognose, ma taluni silenzi hanno dato i brividi.

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