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D’acciaio

D'acciaio

Dalle parole ai fatti: sull’acciaio e sull’alluminio i dazi di Trump sono arrivati, pari al 25% e a partire dal prossimo 12 marzo. Il linguaggio che accompagna il provvedimento è quello consueto, non certo ispirato alla ponderazione. Ma se gli Stati Uniti sono stati «presi a pugni» da amici e concorrenti, come si concilia ciò con il fatto che la crescita statunitense è stata più vivace di quella europea? Il bello del populismo è che è disposto a descrivere il proprio Paese come stroncato e ridotto alla miseria, pur di trovare qualcuno cui darne la colpa.

Ancora una volta si proverà a sostenere che questo è soltanto un approccio negoziale: da qui al 12 marzo si trovi una via d’uscita, alla messicana. Altri proveranno a dire che si deve rispondere a tono e che si devono mettere i dazi sui prodotti americani (che già ci sono). I più sollazzevoli sono i sovranisti rionali europei, che si lanciano con entusiasmo nel Mega (Make Europe Great Again) per fiancheggiare il Maga (l’uguale con America), solo che per farne l’imitazione ora toccherebbe loro di chiedere che si dichiari guerra agli Usa o almeno a Trump. Ma sono perdite di tempo, guardiamo la sostanza e su quella regoliamoci.

Su questo tema la gnagnera dell’Unione europea sempre divisa e in ordine sparso è più falsa del solito. Già in passato l’Ue ha negoziato per tutti e tutti vi si sono riconosciuti. Nelle sue memorie Angela Merkel racconta che più volte Trump (il primo) le chiese di modificare la politica commerciale tedesca e più volte lei gli rispose che è di competenza Ue, della Commissione europea. C’è sempre convenienza in quel che si ricorda, ma sappiamo che Trump lo sa. Quindi no, non ci sono spazi per divisioni e, del resto, i dazi valgono per tutti allo stesso modo, con o senza presunti rapporti amicali.

Gli Usa non sono neanche lontanamente in grado di portare dentro i loro confini nazionali la produzione dell’acciaio di cui hanno bisogno. Non in tempi sensati, ammesso che sia sensato provarci. Questo significa che anche se i dazi non si ribalteranno per intero sul prezzo praticato dai produttori, anche se andranno in parte a eroderne il profitto, comunque porteranno a un aumento dei prezzi che – vista la tipologia di largo consumo – ci mette poco a riflettersi nell’inflazione.

Ma c’è di più: un produttore (di qualsiasi cosa) che si trova in un determinato Paese non per questo ha proprietari che parlano tutti lo stesso dialetto. Fra i produttori canadesi, messicani, europei e in specifico italiani ve ne sono a mazzi che sono partecipati da capitali e imprese statunitensi. La scelta di usare i dazi come clave si abbatte sulla loro testa. Mentre la loro scelta non soltanto trae ricchezza che viene trasferita in guadagni americani: le loro partecipazioni, che si trovano peraltro nel portafoglio di fondi su cui si reggono le pensioni e la sanità americane, sono anche strumenti di presenza e presidio egemonico. Hanno un peso politico e reggono la grandezza americana. Pensare di punirle serve a rendere l’America piccola quanto mai.

In quanto a noi italiani è vero che ci becchiamo i dazi come gli altri, ma è anche vero che gli acciai speciali che esportiamo negli Usa colà non soltanto non li fanno, ma neanche li sanno fare. Quindi vale quanto sopra: per noi un danno, ma anche per loro, che pagheranno di più.

Non serve fare l’imitazione dei bulli, che in quanto a gradassi la scena già è sovraffollata, ma di essere consapevoli della propria forza e saperla usare. Non è che ogni volta ci si debba esibire a favore di telecamera: anche riservatamente e senza spettacolo, occorre dimostrarsi indisponibili al gioco al massacro e conservare nervi d’acciaio.

Avere accolto il vice presidente Vance annunciando un piano d’investimenti europeo, pari a 200 miliardi di euro, nell’intelligenza artificiale è stato un buon segnale, specie dopo avere udito le parole scontate che è riuscito a dire. Il mercato vive di regole, che lo tutelano. Quelle sbagliate creano danno come quelle mancanti dove servono.

Davide Giacalone, La Ragione 12 febbraio 2025

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