Politica

Dagli affari alla politica, e ritorno

La Borsa torna a sentir parlare di Carlo De Benedetti, protagonista già di molte avventure. I risparmiatori superstiziosi fanno correre la mano agli amuleti, quelli razionali la dirigono verso il portafogli, visto che, in passato, si son già beccati delle solenni spazzolate. De Benedetti si fa gli affari suoi, il che, come si diceva una volta, nei limiti del lecito e del consentito è anche giusto. Sono quei limiti, semmai, ad essere piuttosto ondivaghi.
Il caso che oggi agita le acque è quello di M&C, Management & Capitali. Non me ne interessano, qui, gli aspetti finanziari, ma la suggestione cui, con quello strumento, l’ingegnere tentò di dare corpo. Occorre ricordare, infatti, che alla sua nascita egli offrì una quota del capitale a Silvio Berlusconi. Lo voleva come socio, in un contenitore che sarebbe dovuto essere destinato al salvataggio di aziende in crisi, sostituendosi al pregresso e fallimentare intervento pubblico, divenendo assai più dinamico delle banche e offrendo, appunto, due aiuti concreti: capacità dirigenziale e soldi. Una specie di unità nazionale finanziaria. Dopo di che fu M&C, ad andare in crisi. L’ingegnere ed il cavaliere, però, non divennero soci. Berlusconi era pronto a pagare il dovuto, che era anche il modo di togliersi una bella soddisfazione, e De Benedetti ad incassare la partnership, che era anche un modo per chiudere le ostilità e badare al sodo. Agli affari. Le cose andarono diversamente, perché una delle creature di De Benedetti, ovvero il gruppo editoriale, si oppose. Da Repubblica spararono a palle incatenate, giacché Barbapapà, Eugenio Scalfari, che grazie a De Benedetti è divenuto miliardario (vendendo la testata creata discettando di giornalismo autonomo e senza padroni), proprio non intendeva restare a fare il giapponese in trincea, condannato alla guerra perpetua contro il despota intrallazzone di Arcore, nel mentre il suo amico, padrone e protettore se lo prendeva in società. De Benedetti finse di capitolare, in cuor suo sperando di aver preso due piccioni con una fava: aveva mostrato disponibilità a Berlusconi e lealtà ai giornalisti, cui, pertanto, poteva chiedere un trattamento conseguente.
De Benedetti, in passato, è stato uomo di grandi e accattivanti visioni. Capì prima di molti altri che il capitalismo dei salotti, con epicentro nella Mediobanca di Cuccia, era destinato a cedere il passo. Ma calcolò male i tempi. Fu straordinario nell’aprire a sinistra per portare i comunisti a difendere le ragioni del suo (nel senso di proprio) mercato. Ma calcolò male la tenuta. Oggi, la gran parte dei suoi giocattoli sono rotti, od hanno il fascino dei soldatini di piombo nell’era dei videogiochi.
Prendete la celeberrima tessera numero uno, quella che si diede da sé solo, per dimostrare l’ascendenza sul Partito Democratico. In quel momento credette davvero che il berlusconismo fosse sull’orlo della fine, che la coalizione di sinistra avrebbe vinto, che il veltronismo potesse trionfare con il nulla, lasciando largo spazio a chi, come De Benedetti, di idee ne ha, e molte. Anche in questo caso, il calcolo dei tempi è risultato illusorio. Così, adesso, non sa che farsene.
Accanto a quella tessera aveva messo anche i soldi per creare un movimento d’opinione, chiamato Libertà e Giustizia, affidandone le redini a Sandra Bonsanti, veterana di Repubblica, poi direttrice di altri giornali della scuderia, vestale ferrigna dell’antiberlusconismo. Risultato: di opinione se ne è creata poca, mentre il gruppo, a dispetto dell’origine resistenziale invertita (si faceva il verso alla “Giustizia e Libertà” di Carlo Rosselli), è scivolato su posizioni tristemente dipietriste, girotondinare, moralisteggianti. Il contrario esatto di quel che i padri pensanti della sinistra democratica ritenevano fosse la politica. Con quella roba si può, al più, ricattare, o, come più opportunamente si dice, condizionare la sinistra. Ma che ci si fa, se la sinistra perde e se, condizionandola a quel modo, la si condanna a perdere in eterno? Lasciamo perdere che la si condanna ad essere anche giustizialista e reazionaria, che sono finezze non apprezzate nel bel mondo delle tifoserie, ma toglie qualsiasi interesse al gioco.
Lo stesso gruppo editoriale, in fondo, non riesce a mordere veramente il potere berlusconiano, limitandosi a rendere estremisti i suoi avversari, il che gli impedisce di allargare il mercato delle vendite, come quello dei voti. Si ha una sensazione di fine corsa, anche se dagli spalti i supporters si fanno sentire rumorosi, perché s’è persa la visione di quel che potrebbe essere una sinistra di governo. Ci si oppone agli altri, se si è all’opposizione, ed a se stessi se si è al governo. Non c’è altro. Idee, progetti, programmi, tutto sembra essere stato annegato nel fragore della pugna, puntualmente coronata da sconfitta o da vittoria autodistruttiva.
Morale: De Benedetti si fa gli affari suoi. Il mondo di cui fu indiscusso protagonista, in gran parte, non c’è più. Voleva come avversario da battere Agnelli, gli è invece toccato Berlusconi, vincente per giunta. Il vecchio condottiero non ha perso l’amore per il campo di battaglia, la passione per il clangore delle spade. Ma le rotea per far soldi. Che è anche una bella cosa, a patto di non essere quelli che devono rimetterceli.

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