Politica

D’Alema e De Benedetti

Carlo De Benedetti non è un berluschino e Massimo D’Alema non è un caso umano. Se la piantano d’insultarsi in piazza e provano a ragionare, forse, si chiarisce ad entrambe perché la sinistra è divenuta vuota d’idee e colma d’arroganza e supponenza. Sono così abituati a dar lezioni che, in mancanza di discenti consenzienti, s’arrangiano a darsele fra di loro. Per giunta dicendo spropositi: tutte le democrazie funzionanti hanno una classe politica professionale, così come, in tutte, la forza del capitale si scarica sulla politica, premendo in un senso o nell’altro.

Se il paragone, introdotto da D’Alema, fra l’ingegnare e il cavaliere, immaginando il primo sia eguale al secondo, ma più piccino, si riferisce al reddito o al successo, siamo nel puro campo delle linguacce. Ma se intende additare paragonabili vicende imprenditoriali, si sbaglia. Silvio Berlusconi può essere detestato per innumerevoli ragioni, ma la sua ricchezza non è stata costruita con soldi dello Stato. Quella di De Benedetti sì. Non è una differenza da poco, al netto d’ogni altra considerazione. Se, invece, il paragone si riferisce al fatto che entrambe sono uomini ricchi, che cercano d’influenzare la politica, anche in questo caso si è fuori strada: tutti gli imprenditori, anche quelli piccoli, svolgono attività di lobbing, vale a dire d’influenza, il che è del tutto lecito (meglio sarebbe se anche trasparente), ma mentre De Benedetti ha comprato un giornale partito, e con quello guida la mano della sinistra, Berlusconi s’è direttamente candidato, chiedendo il voto agli italiani. Che la seconda cosa sia una minaccia per la democrazia è tesi che può essere concessa solo a due categorie di persone: gli svampiti e gli avvampati.

Propongo una lettura più ragionevole, e, se lor signori permettono, più di sinistra: a furia di gestire il potere senza prendere la maggioranza dei voti, e a furia di far affari con la spesa pubblica senza rinunciare a condannare sia la spesa pubblica che gli affaristi, a furia di supporre che l’arresto di tutti gli avversari avrebbe loro consegnato il potere assoluto, questi soggetti hanno trascurato un dettaglio, ovvero che l’Italia non li ama e non li vuole, cosa che Berlusconi ha sfruttato, coalizzando forze disomogenee. La cosa bislacca è che, in nome della democrazia, pretendono di avere ragione contro gli elettori. Da ricovero.

Non è affatto vero, come il cosmopolita De Benedetti pretende di farci credere, che solo in Italia un imprenditore s’è dato alla politica, visto che tale costume è largamente diffuso, oltre che naturale. Il punto è un altro: l’Italia è l’unico esempio d’azzeramento, in costanza di democrazia, dei partiti politici, ad opera del congiunto lavoro svolto dalla magistratura e dai comitati d’affari. Il nostro problema non è l’esistenza dei partiti, ma la loro scomparsa, non è che esistano politici di professione, ma che siano stati cancellati. Di ciò De Benedetti ha largamente approfittato (vogliamo parlare della concessione telefonica che ebbe, da un governo privo di maggioranza elettorale e frutto del commissariamento giustizialista?), sicché oggi faccia la cortesia di non sdottoreggiare.

Massimo D’Alema, dal canto suo, ha diverse ragioni, ma anche torti rilevanti. E’ vero che, nel 1992, fu tra i dirigenti comunisti che guardarono con sospetto all’ondata manettara, aiutato dalla sua stessa formazione culturale, che gli fa considerare la politica come regista della realtà, e non come oggetto delle iniziative altrui, ma è anche vero che si allineò in fretta, non risparmiandosi bassezze, nell’errato presupposto che quello sconcio avrebbe giovato alla sua parte politica. Come non si può dimenticare che, una volta giunto a Palazzo Chigi, mostrò tutta la debolezza di una sinistra ideologica che prima ha avversato il mercato, considerandolo fonte d’ogni nefandezza, e poi s’è inginocchiata al suo cospetto, adorandone i falsi dei. Insomma, farsi prendere per i fondelli e sponsorizzare la scalata a Telecom Italia, abbagliati dall’idea che si trattava della prima grande offerta pubblica di acquisto e scambio, senza porre mente al fatto che la proprietà sarebbe divenuta lussemburghese, e da qui dispersa nei paradisi fiscali, è stata una prova di pesante impreparazione, volendo escludere (come escludo) la compartecipazione.

D’Alema e De Benedetti possono anche continuare a prendersi a padellate sulla testa, rimproverandosi i rispetti errori o, come hanno fin qui fatto, accusandosi reciprocamente di roba imprecisa e fantasiosa, ma lo spettacolo racconta la drammatica arretratezza della sinistra italiana, la sua mancanza di cultura di governo, il suo essere preda di moralismi senza etica. Sono queste le cause che hanno generato l’implosione, ed è il crollo ad averli resi succubi del modello culturale avversario, il detestato, ma praticato, berlusconismo.

Tutto questo è capitato perché la sinistra italiana, a causa della guerra fredda e grazie ai soldi sovietici, è stata lungamente abitata da uomini e culture nemici della libertà, politica e di mercato. Perché la sinistra democratica, anche quella socialista, è stata minoranza, per poi essere schiacciata con violenza. Perché il mondo degli affari, ruotante attorno a quella sinistra ideologica, pretendeva di parlare le lingue e mostrarsi moderno, ma, nella realtà, s’accomodava al più antico dei guasti: arricchirsi smaneggiando e alle spalle altrui. Se questo è il “fare”, oh, meglio quelli che conducono una vita contemplativa.

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