Politica

Decrepando

Per salvare la Roma municipale s’è ulteriormente diroccata quella istituzionale. Il Natale è stato più volte usato come strumento di distrazione, ma quest’anno s’esagerò: dall’Assemblea della Banca d’Italia al decreto “rinunciato”, su sollecitazione del Quirinale. Passaggi destinati a creare catene di conseguenze. Negative.

Il decreto “salva Roma”, nel corso della sua conversione, era divenuto accozzaglia di pressioni e interessi particolari. Che non vuol dire, almeno non necessariamente, negativi o vergognosi, ma, di sicuro, ami cui far abboccare il luccio della spesa pubblica, per strapparle via qualche brano di carne. L’esatto contrario di quel che ci serve. Contro questi assalti il governo dispone di armi, previste dalla procedura parlamentare: può opporre il proprio parere negativo; può chiedere ai capo gruppi della maggioranza di vigilare con più attenzione; e, se ripetutamente e significativamente battuto dalla propria maggioranza, può punirla apponendo la fiducia. Il governo Letta ha fatto il contrario, chiedendo la fiducia sul decreto emendato, quindi considerando quel testo, frutto degli assalti, consustanziale alla propria esistenza, fedele espressione della propria politica. Fiducia che ha ottenuto. I quarantenni affrancati ne fecero una di testa loro, ma al varco si son ritrovati con l’ottuagenario che li ha suonati.

Per rimediare, però, è stata avviata la tragedia costituzionale. Il presidente della Repubblica, che aveva firmato il decreto nella versione preparata dal governo, interviene e manifesta indisponibilità a condividerne le successive modifiche. Nel merito ha ragione, ma la Costituzione ha le sue regole e qui assistiamo al fatto che il Quirinale boccia il lavoro del Parlamento, impedendogli di portarlo a termine. Cosa gravissima, perché nella nostra Costituzione la volontà parlamentare prevale su quella presidenziale, e non il contrario (tanto che il Colle può rinviare leggi già approvate, ma è poi costretto alla firma ove rivotate nel medesimo testo). Allora si prova la pezza, grottesca: il governo rinuncia alla conversione e ritira il decreto. A parte il fatto che trattasi del medesimo governo che su quello pose la fiducia, resta che i decreti non sono né rinunciabili né ritirabili. Hanno effetto immediato, che dura due mesi, salvo modifiche o rigetto. Ma da parte del Parlamento, non del Quirinale.

Quello cui abbiamo assistito, dunque, è l’uso del governo contro la volontà parlamentare, per volontà presidenziale. Con un kamasutra istituzionale che costringe oggi il governo a varare un decreto che interviene sull’iter di ratifica di un altro decreto, non ancora decaduto. Scena orribile.

Un tempo eravamo solitari, nell’indicare i guasti di un Colle in costante espansione. Lo siamo rimasti nel sostenere che si tratta di un processo degenerativo di lunga e vasta durata, che si svolge parallelamente al decomporsi della politica. Adesso, però, la scena è affollata da quanti non esitano a definire il Quirinale sede sempre meno repubblicana e sempre più monarchica. Sbagliano: nessun re costituzionale ha la metà dei poteri che Napolitano esercita sul governo, fino a interdire la volontà parlamentare. Certamente non il re italiano dello Statuto albertino. E sbagliano se ritengono che siano questioni legate alla persona, inevitabilmente annebbiata anche dal leccume generale. No, qui è la Costituzione del 1948, che funzionò benissimo allora e che da decenni ha preso a far cadere polvere dal soffitto, poi a manifestare  le crepe, quindi a lasciar cadere qualche blocco consistente, con tensioni che producono sinistri scricchiolii. Quella roba, oramai, è sul punto di crollare rovinosamente, esponendo a rischi enormi. Da tanto tempo si sarebbe dovuto procedere al restauro, ma nella sala, a banchettare, c’è troppa gente che si crede furba e pensa di potere restare da sola, quando gli altri saranno costretti alla fuga. Vecchi arnesi fuori uso si giocano il futuro che non hanno.

Pubblicato da Libero

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