L’ultimo decreto governativo, coda di una lunga serie, pone diversi problemi. Di metodo, di merito e politici. Nessuno può essere trascurato, perché da quelli dipende il modo in cui sarà chiusa questa legislatura, quindi quello con cui s’imposterà la prossima.
1. La presidenza della Repubblica ha ripetutamente richiamato, poi pubblicamente avvertito, infine platealmente frustato il governo precedente, reo di mandare decreti alla firma senza lasciare il tempo di esaminarli e dal contenuto disomogeneo. L’attuale governo ha ottenuto la firma nella stessa giornata in cui il testo è arrivato al colle. In quanto al contenuto: è difficile negare che c’è di tutto. Richiamo l’attenzione su questo aspetto non perché mi diverta a polemizzare con il Quirinale e, anzi, preciso subito che credo abbia fatto bene, a firmare quel testo. Ma si deve essere consapevoli del problema, affinché qualcuno non si convinca che fra le condizioni costituzionali per cui un governo possa governare vi sia anche quella del gradimento presidenziale. Della serie: se sei amico decreti e se non lo sei imprechi.
2. Così come non si deve credere che la firma presidenziale dipenda dal suo condividere o meno il contenuto del decreto, che resta responsabilità del governo. Quella firma serve solo a escludere che le norme, immediatamente vigenti, arrechino nocumento all’impianto costituzionale.
3. Il decreto legge, per sua natura, entra in vigore nel momento stesso in cui è emanato, ma le norme contenute nel decreto taglia-spese, come anche in altri, non hanno immediata cogenza. Spesso sono norme programmatiche, enunciazioni di futuri principi, obiettivi a scadenza triennale. Dal punto di vista formale, quindi costituzionale, non dovrebbero trovare spazio in un decreto, ma in una legge.
4. Per evitare che la viscosità dei lavori parlamentari induca a credere che il governo possa assolvere ai propri compiti solo decretando (e stendendo un pietoso velo sulle passate polemiche, di colore opposto, sull’eccesso di decretazione), varrebbe la pena assegnargli il potere d’intervenire sul calendario dei lavori parlamentari, stabilendo quali leggi sono da considerarsi urgenti. Senza per questo farne decreti.
5. I giornali sono stati riempiti di schemi e riassunti per rendere edotti i lettori circa i tagli effettuati. Peccato non siano stati effettuati (lo abbiamo visto al punto 3). Ciò provoca un effetto stordimento nei cittadini, che credono siano state fatte cose al momento solo annunciate, ma non stordisce affatto i mercati, che non solo non vedono risultati, ma fanno anche i conti di quelli promessi, deducendone che il saldo reale (fra minori e maggiori spese) porta ad un risparmio di meno di 4 miliardi. Cifra non propriamente epocale.
6. Siccome oramai si fa politica sulle parole, anziché con i fatti, state certi che partirà la corrida degli emendamenti per limitare i tagli (annunciati e non fatti) alla spesa pubblica, sollevandosi la protesta di gruppi, categorie, corporazioni e contrade. Un gioco pericoloso, perché prima o dopo ci si accorgerà del trucco, imbestialendo le vere vittime, i veri soggetti deboli: gli italiani che pagano le tasse.
7. Il centro sinistra è nei guai, perché la gran parte dell’Italia che rappresenta dipende dalla spesa pubblica, oltre che dalla retorica dello stato sociale (se mi costa più di quel che mi dà, a me pare asociale). Il centro destra è nei guai, perché anche lì c’è rappresentanza della spesa pubblica e dipendenza dal modello culturale dello Stato giusto che spende con solidarietà, contro il privato cattivo, che spende per ludicità o cupidigia. I primi non possono battersi contro i tagli, perché commissariati dal Quirinale e quindi arruolati nel montismo (che non si fa arruolare da loro). I secondi possono dimostrarsi autenticamente scemi: imbracciando le armi contro i tagli anziché usarle per costringere il governo a farli veramente, promettendo non il non aumento futuro dell’iva, ma la diminuzione della pressione fiscale.