C’è un legame fra le parole del Presidente della Repubblica – che ha ricordato il bisogno del rigore nell’amministrazione del denaro dei contribuenti e di regole che non siano «ottuse» – e la necessità che il merito sia valorizzato, non soltanto nell’istruzione (tema cui è dedicato l’ultimo libro di Luca Ricolfi, intitolato alla sua Rivoluzione) ma nella vita pubblica. Serve a che le parole abbiano un significato e non siano solo suggestioni.
Certo che il rigore può essere ottuso, ma se pago il 110% lavori di rifacimento in 236mila villette, 115mila abitazioni indipendenti, 6 castelli e soltanto 71mila condomini – il tutto producendo una voragine nei conti pubblici – a essere ottusa è la dilapidazione. Se faccio comprare 33 libri a una ragazzina che va alla scuola media la dilapidazione è anche sadica.
Se punto ad avere un più ampio bilancio europeo, alimentato da debito comune, contemporaneamente non posso lasciare correre i deficit e i debiti nazionali, altrimenti scavo la fossa al mio stesso interesse. E se considero “spesa” sinonimo di “crescita”, lasciando intendere che solo facendo correre la prima riesco ad alimentare la seconda, poi non so spiegare come mai l’Italia non sia il Paese più ricco dell’Unione europea, visto che ha il debito maggiore avendo fatto la maggiore spesa. Se si continua su questa strada dissennata si finirà con l’emanare un decreto contro la forza di gravità, considerandola una regola ottusa che provoca cadute, fratture e spesa sanitaria.
Non sto scherzando, ma seriamente meditando su quanto scrive Ricolfi. La sinistra fu cultrice del merito, giustamente considerandolo lo strumento per il riscatto dei meno garantiti e più poveri. Poi s’è fatta instupidire dalle sessantottate e dall’avversione alla Don Milani verso la selezione e il mercato, quindi è passata a difendere la promozione di tutti. La destra seguì il medesimo andazzo, ma ora propone il “merito” come obiettivo e metodo. Benissimo. Ma attenzione a non togliere significato alle parole: se continuo ad assumere insegnanti senza selezione (quindi senza merito), se nella loro retribuzione non pesa il merito e se non dico come lo misuro, il “merito” resta una bandiera evocante e insignificante.
Tutto questo è possibile perché vige la convinzione collettiva che il merito sia un inganno, tanto poi valgono l’amicizia e la ruffianeria. Dunque plaudo a che le regole non siano ottuse, sperando che lo siano abbastanza da pagare qualche cosa più di quel che vale. Plaudo alla scuola ove viga il merito, ma finanzio le università in ragione di quanti ne laureano. E, del resto, se accendo la televisione mi piovono addosso parlamentari cui il congiuntivo provoca lacrimazione. Gente che non parla “semplice” ma ruvido, perché si premia la suggestione al posto del contenuto. Se fai un decreto in cui metti il tetto al prezzo dei biglietti aerei (e poi te lo rimangi) non è che non sei un esperto di diritto o di economia: è che sei passato per le scuole senza che nessuno t’abbia piegato la capoccia sui “Promessi sposi” e sul capitolo sull’assalto ai forni. «Adelante, Pedro, si puedes (…) con juicio».
E quando si va a votare non si valuta la rispondenza dei fatti alle parole – ovvero la coerenza – perché è troppo complicato e non ci crede nessuno, bensì butto giù “quelli di prima” e premio quelli che mi promettono qualche cosa di più.
Questa roba non nuoce soltanto alla democrazia, ma a tutta la vita collettiva. Il bisnonno dei dispotismi, Platone, immaginava la società come una carrozza: l’auriga è l’anima razionale, il governante saggio e filosofo; un cavallo è l’anima irascibile, gli uomini d’arme, l’esercito; l’altro l’anima concupiscibile, il popolo. Ma se l’auriga è un demagogo, il militare uno che sostiene di non volere obbedire agli ordini che non condivide e il popolo il solo razionalmente spinto a chiedere «Quanto mi dai?», la carrozza si sfascia. Senza un buon culto e difesa del merito, senza quella rivoluzione della consapevolezza, a scarrozzarsi non è soltanto la democrazia.
Davide Giacalone, La Ragione 22 settembre 2023
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